Umberto Broccatelli
Identità europea e democrazia linguistica

Dopo l’11 settembre 2001 il mondo non è più come prima. L’America è stata attaccata per la prima volta sul suo territorio. I Paesi europei hanno manifestato la loro solidarietà, ma ancora una volta è apparsa chiara l’assenza dell’Europa come tale nella scena mondiale. I singoli Paesi europei vengono richiesti di contribuire alla risposta dell’America, anche sul piano militare, ma le decisioni vere, come sempre, sono prese dall’America. Si ripete, ma su scala più vasta e in una situazione ben più pericolosa, quanto è già successo nei Balcani.

Ci si sarebbe potuto aspettare che, in questa situazione, nelle discussioni e nelle prese di posizioni politiche svoltesi nelle settimane successive alla tragedia delle Torri Gemelle, qualcuno fra i responsabili politici dei vari governi nazionali europei facesse rilevare la debolezza e l’impotenza dell’Europa, la sua posizione necessariamente subordinata e ponesse energicamente l’esigenza di dare all’Europa una voce, una vera capacità di azione politica nel quadro mondiale, ma così non è stato. Qualcuno ha detto: ora ci sono cose più urgenti, all’Europa penseremo dopo.

Gli Stati Uniti d’America sono rimasti l’unica superpotenza mondiale, condizione che li condanna a fare i “poliziotti del mondo”.

Si sente la mancanza di un’altra voce, di un’altra grande potenza democratica, amica sì dell’America, ma da pari a pari, che possa far sentire il proprio peso nelle grandi decisioni ed assumersi la proprie responsabilità.

Ma gli USA sono un grande Stato federale. Attorno alla sua bandiera si raccolgono con orgoglio i suoi cittadini. Gli Europei si sono avviati sulla strada dell’unione a piccoli passi, senza avere ancora avuto il coraggio del grande salto: dagli Stati-nazione allo Stato federale.

Dello Stato federale l’Unione ha una caratteristica: la moneta unica, che è senz’altro un grande traguardo raggiunto. Ma la moneta unica non ha un governo unico dell’economia e questo le fa correre seri pericoli.

Delle caratteristiche dello Stato, l’Unione possiede “la borsa”, cioè la facoltà di battere moneta, che è una prerogativa del “principe”, ma il principe, cioè lo Stato, ancora non c’è.

Manca poi l’altra prerogativa fondamentale dello Stato: “la spada”, cioè il monopolio dell’uso legittimo della forza. Manca la capacità di fare una propria politica estera e di difesa. Per questo, quando i Paesi europei si trovano davanti a situazioni in cui ci si deve confrontare con la violenza altrui, sono impotenti e si devono affidare al “grande fratello” americano e accettarne le decisioni, giuste o sbagliate che siano.

Negli anni ’50 la minaccia sovietica diede agli Europei la spinta per unirsi anche da un punto di vista militare e si giunse a un passo dalla fondazione della Comunità Europea di Difesa e della collegata Comunità Politica. Questo avrebbe significato in pratica la fondazione della Federazione Europea. Ma in Francia la coalizione della sinistra staliniana con la destra del grande padronato protezionista riuscì ad attivare il riflesso nazionalista dei francesi e ad affossare quel tentativo.

Ora c’è una nuova grande minaccia contro la democrazia, la pace e la libertà. Vorranno gli Europei continuare ad affidarsi all’ombrello dello zio Sam? Oppure prenderanno coscienza delle loro responsabilità?

I cittadini europei sentono la necessità di una maggiore unione, ma i politici sembrano incapaci di porre tale obiettivo all’ordine del giorno.

I movimenti europeisti lanciano l’appello alla convocazione di una Assemblea Costituente Europea che fondi lo Stato europeo.

Se i capi di Stato e di governo almeno di alcuni dei Paesi dell’Unione prenderanno coscienza della drammaticità della situazione e si apriranno a una visione della politica che superi le piccole beghe di bottega e le meschine visioni nazionali, allora si aprirà una possibilità.

Chiamare gli europei alle urne per eleggere un’assemblea costituente e poi per ratificare la costituzione che questa avrà preparato, vorrà dire dare agli Europei una nuova più grande patria, che - come diceva Luigi Einaudi - non vorrà dire rinnegare le patrie nazionali, ormai diventate piccole, ma integrarle.

Gli Europei diventeranno così veramente cittadini d’Europa, quando l’Europa sarà riconoscibile in istituzioni comuni democratiche capaci di rappresentarla nel mondo.

Negli Stati Uniti si usa la parola “nazione” anche per indicare la federazione nordamericana, come patria dei cittadini. Non sappiamo se si arriverà a parlare di “nazione europea”, ma comunque occorrerà formare e far crescere negli Europei il senso di identità europea. L’appartenenza all’Unione dovrà creare l’identità federale europea, un patriottismo, una lealtà verso una comunità plurinazionale non chiusa ed esclusivista come i vecchi Stati-nazione, ma aperta a tutti coloro che, accettandone i principi, vorranno farne parte.

Perché questo avvenga è necessario però che gli Europei non si sentano divisi fra Europei di serie A ed Europei di serie B, come attualmente purtroppo accade.

Sfogliando i giornali che a Bruxelles pubblicano annunci con offerte d’impiego per uffici che lavorano nell’ambito delle istituzioni comunitarie, è frequente trovare annunci che pongono come condizione per l’impiego la caratteristica “madre lingua inglese”. Si cercano cioè persone di madre lingua inglese, non semplicemente persone che abbiano un’ottima conoscenza dell’inglese. Se uno non è di madre lingua inglese, soffre di un “handicap” non superabile. Questa è oggettivamente una discriminazione.

In vista dell’allargamento dell’Unione la Commissione Europea tende a imporre l’inglese nei Paesi dell’Europa centro-orientale; i suoi funzionari usano sempre più l’inglese per comunicare con tali Stati, fino a imporre l’uso esclusivo di tale lingua nel quadro di certi programmi agricoli.

Già ora nell’Unione si tende a limitare il numero delle lingue di lavoro effettivamente usate in molte circostanze a due o tre. Sono recenti alcune prese di posizione dei ministri degli esteri francese e tedesco contro l’uso predominante dell’inglese. Purtroppo però queste proteste non presentano un reale soluzione, valida per tutti, ma si limitano ad avanzare pretese per l’una o l’altra lingua.

Se l’Unione diverrà una Federazione, certamente non potrà funzionare con 12 o 20 lingue realmente in condizioni di parità. Tutti gli stati multinazionali nella storia hanno avuto una lingua comune, accanto alle lingue locali, ma si trattava di Imperi, dove la lingua della corte o del popolo dominante veniva imposta agli altri popoli. Nel caso dell’Europa nessun popolo può pretendere di imporre la propria lingua agli altri. Però una lingua, l’inglese, o meglio l’americano, già si sta imponendo sulle altre, a causa della necessità di avere comunque una lingua franca comune e nell’apparente mancanza di un’alternativa migliore.

Questo comporta però il rischio, anzi a lungo andare la certezza, che le altre lingue poco per volta siano declassate a lingue di second’ordine, a dialetti incapaci di esprimere le funzioni comunicative più elevate, e destinate alla lunga a scomparire. Già oggi vediamo come sempre più spesso in discorsi o scritti in lingua italiana si usino parole inglesi, anche quando esistono perfetti equivalenti italiani.

Ma veramente non esiste un’alternativa? Noi riteniamo che questa alternativa esista: l’uso di una lingua pianificata, cioè in pratica dell’esperanto. Tale lingua è molte volte più facile da apprendere di qualsiasi lingua etnica, e in particolare dell’inglese, lingua che presenta molteplici difficoltà, ma soprattutto è neutrale e non dà vantaggi di partenza a nessuno. Si usi l’inglese nei campi tecnici e scientifici dove - nell’attuale situazione - non se ne può fare a meno. Ma nei contatti umani della gente comune si diffonda questa lingua creata dall’uomo per tutti gli uomini. La Federazione Europea potrà farlo e avrà interesse a farlo, per due motivi: 1) perché l’imposizione di una lingua nazionale sulle altre è comunque un fatto discriminatorio e antidemocratico, che potrà causare reazioni di rigetto; 2) l’inglese, cioè l’americano, è la lingua della grande potenza mondiale, con cui l’Unione vorrà e dovrà essere sì amica, ma con cui non potrà identificarsi.

La lingua è il più potente fattore d’identificazione nazionale: come potremo sentirci realmente Europei, se parleremo americano?

Occorre che gli uomini politici, gli uomini di cultura, le istituzioni europee affrontino questo problema senza pregiudizi e comincino a preparare le vie per la soluzione, istituendo le sedi opportune per approfondire questa tematica.

Una prima cosa che si potrebbe fare subito è intanto, per esempio, cominciare a organizzare l’insegnamento dell’esperanto a una parte del personale dei servizi di traduzione delle istituzioni europee. I traduttori e gli interpreti, che già conoscono due o tre lingue, potrebbero imparare l’esperanto in breve tempo e poi cominciare ad usarlo a scopo sperimentale, come lingua di lavoro.

Sono federalista europeo e sono anche esperantista e trovo che le due aspirazioni siano profondamente legate. L’esperanto ha poche probabilità di successo se non ci sarà la federazione europea, ma la Federazione Europea avrà in sé un grande fattore di debolezza, se non avrà risolto adeguatamente il suo problema linguistico.