Conclusione del dialogo tra un linguista e un traduttore

[NB: Quella che segue è l'interpolazione tra la risposta di Bertinetto alla lettera di Piron, e le controargomentazioni di quest'ultimo. Il lettore deve tener presente che l'interpolazione può in alcuni casi creare delle fratture nella continuità del discorso, che peraltro resta facilmente ricostruibile. Lo scambio si è svolto per via elettronica]

BERTINETTO - Egr. dott. Piron, desumo l'indirizzo dal suo sito web, e mi permetto di risponderle per questo mezzo. La ringrazio delle sue osservazioni. Il dettaglio delle quali, peraltro, mi fa pensare che la lettura del mio saggio l'abbia delusa. La cosa mi sorprende solo fino ad un certo punto, dato che il mio punto di vista non è quello di un esperantista militante. Tuttavia, trovo che la maggior parte delle sue critiche presenti il difetto, come dire, di un'ottica “integralista”. Lei è talmente convinto dell'eccellenza dell'esperanto (cosa che non intendo contestare, perché è un punto di vista legittimo) da trascurare un dato di fatto piuttosto evidente: e cioè che la maggior parte della gente non è affatto convinta dell'utilità di aderire a questa scelta. Le ragioni sono molte e complesse, come lei ben sa. E tuttavia, queste ragioni vanno seriamente prese in considerazione, se si vuole che la causa dell'esperanto faccia progressi. Al contrario, il fatto di ignorarle finisce per rafforzarle.

PIRON - Non mi pare di trascurare questo dato. So bene che la maggior parte della gente non è convinta, e non si interessa alla questione. Se la mia lettera ha dato l'impressione del contrario, vuol dire che non sono riuscito a esprimermi con la voluta chiarezza.

BERTINETTO - Siccome suppongo che lei abbia conservato copia della lettera che mi ha inviato, farò riferimento ai numeri progressivi in essa contenuti. Devo peraltro prevenirla: siccome mi accingo a scrivere di getto, sono certo che le mie affermazioni finiranno per avere un tono molto più “secco” di quanto non sarebbe mia intenzione. La prego quindi fin d'ora di badare alla sostanza e non alla forma. E se qualche mia formulazione suonasse indebitamente brusca, le chiedo fin d'ora scusa. Sarebbe assurdo che si creassero malintesi tra due persone che condividono l'obiettivo finale, pur divergendo sulle strategie per raggiungerlo.

probabilmente più secca di quanto desideravo. Ciò che non ho fatto, e mi dispiace, era dirLe tutto il bene che pensavo del Suo articolo. Mi sono concentrato su qualche punto fattuale dove ho creduto di avvertire una differenza fra le Sue affermazioni e la mia esperienza, e non ho sottolineato i numerosi punti con i quali sono completamente d'accordo. La prego di scusarmi: ciò ha dato alla mia lettera un tono eccessivamente critico che non corrisponde alla mia opinione complessiva sul Suo articolo.

BERTINETTO - 1-2: Lei ripete con molte più parole (probabilmente meglio di quanto abbia fatto io) i medesimi concetti da me espressi. Ribadisco il mio punto di vista (che è il parere di un linguista): le lingue sono perfettamente adeguate al proprio scopo. Il che non significa che ogni lingua offra i mezzi espressivi ottimali per convogliare i diversi aspetti della nostra esperienza. Nessuna lingua è perfetta in questo senso.

PIRON - Siamo d'accordo.

BERTINETTO - ... Ma questo è un altro discorso. Le lingue sono prodotti culturali, e nessuna cultura è perfetta (questo l'ho espressamente sottolineato). Tuttavia, lo scopo per cui le lingue esistono è stato ovviamente raggiunto. A meno che davvero non si creda che l'evoluzione abbia prodotto strumenti inadeguati alla comunicazione, il che mi parrebbe curioso.

PIRON - Sì, al livello nazionale o etnico. Ma la comunicazione internazionale deve fronteggiare altri bisogni. Per me l'apparizione di molti progetti di lingue interetniche - come la successione di lingue predominanti [koiné, latino, lingua franca (magari), francese, inglese, broken English] - fa parte dell' evoluzione che tende a dare ai popoli un mezzo di comunicazione adeguato allo scopo di capirsi senza frontiere. La rivalità fra queste diverse soluzioni fa parte della stessa evoluzione, come la rivalità fra i dialetti, e perfino fra le lingue, nell'ambito di un paese, e come, senza dubbio, la rivalità fra diverse forme lessicali e grammaticali nella formazione delle lingue nazionali. È il mezzo che ha l'umanità per raggiungere un modo di comunicazione ottimale fra i popoli. Non sappiamo quale sarà la soluzione definitiva: forse l'inglese, forse l'interlingua, forse l'esperanto, forse una lingua ancora non nata, forse una nuova successione di lingue nazionali predominanti. Come vede, io sono un po' darwiniano al riguardo. Scommetto sul buon senso della specie umana.

BERTINETTO - In sostanza, lei qui trascura il senso della mia argomentazione. Non occorre migliorare le lingue a tavolino.

PIRON - D'accordo. Per me è ovvio.

BERTINETTO - ... Basta imitarne il funzionamento. Questo è ciò che ha fatto Zamenhof (a differenza di tanti impavidi glottodemiurghi). La legittimità dell'esperanto, in quanto lingua, nasce di qui. E' legittimo in quanto si propone di funzionare come una lingua naturale. Se mancasse questa premessa, tutto quanto viene detto in seguito cadrebbe. 4: Non credo proprio che l'esperanto farà molta strada se si continuerà ad insistere sul fatto che l'inglese è causa di disastri aerei.

PIRON - Sono pronto a credere che Lei abbia ragione. Non mi sono espresso chiaramente su questo argomento. Ciò che mi ha fatto reagire era l'idea che le lingue siano funzionalmente uguali. Non mi sono collocato dal punto di vista dell'efficacia dell' argomentazione, ma dell' oggettività nella ricerca della lingua ottima rispetto a determinate circostanze (ma so bene che la lingua ottima non è necessariamente quella che ha la maggior probabilità, realisticamente, di esser adottata in un futuro prevedibile: occorre molto tempo perché il buon senso trionfi).

BERTINETTO - ... Anche se si usasse l'esperanto, resterebbe sempre il rischio dell'incomprensione tra torre di controllo e pilota. La frase che lei cita (che risulta incomprensibile anche a me) non dimostra che l'inglese è una lingua di difficile impiego, ma dimostra soltanto che ci sono individui irresponsabili, i quali si permettono di mettere a repentaglio le vite che sarebbero affidate alle loro cure.

PIRON - Qui non sono del suo parere. La frase che cito non dimostra nulla, ma la mia esperienza di traduttore è che l'inglese è molto meno chiaro della maggior parte delle lingue, sia dal punto di vista fonetico che grammaticale (e lessicale). Ho visto rapporti di molti incidenti aerei che non mi hanno lasciato nessun dubbio. Ci sono lingue che esigono precisazioni che le rendono chiare, e ce ne sono, come l'inglese e il cinese, che lasciano il lettore o l'uditore in un'incertezza pericolosa, e che, in effetti, favoriscono un'espressione sciatta, priva di rigore. Scusi se esagero, ma l'attribuire a un individuo una colpa che spetta a una lingua, in questioni di vita o di morte, mi pare abbia qualcosa di irresponsabile. A parer mio, tutto deve esser fatto per ridurre il più possibile i fattori di rischio. Ma non credo che questo possa capitare in un avvenire prevedibile rispetto ai fattori linguistici. Gli uomini di solito hanno timore a far fronte ai fatti che contrastano con le loro abitudini mentali.

BERTINETTO - ... Sono certo che quel concetto poteva essere espresso in maniera perfettamente chiara. E non dubito che un controllore di volo irresponsabile riuscirebbe a rendere incomprensibile anche una frase esperanto. Il solo rimedio, in questi casi, sono le punizioni esemplari per questi criminali (non saprei come altro chiamarli).

PIRON - Non credo che questo sia efficace. Le persone di lingua inglese di rado sono coscienti dell'ambiguità delle frasi che vengono loro in mente. Per me i controllori in questione non sono criminali, sono vittime di un sistema che dà all'inglese una funzione alla quale non è adatto. Inoltre, sono vittime delle scuole per cui sono passati e che non gli hanno insegnato niente sulla comunicazione interculturale.

BERTINETTO - 5-6: Io facevo ovviamente riferimento alla semplicità morfologica, e mi pare che la mia affermazione circa la (relativa) semplicità dell'inglese sia incontestabile. Che poi anche l'inglese abbia i suoi problemi, non lo nego di certo. Tuttavia, anche qui vale il discorso precedente: se voi esperantisti davvero credete di poter far breccia con l'argomento della semplicità/complicazione, beh, come dire... auguri!

PIRON - Qui appare la radice del nostro malinteso. Lei vedeva la cosa dal punto di vista dell'azione in favore dell'esperanto, ed io soltanto dal punto di vista della comparazione fra l'inglese e le altre lingue, con l'idea “l'inglese sembra semplice all' inizio, ma non lo è davvero. Un non-nativo non lo padroneggia mai”. Questo, secondo me, è un argomento che si può usare (senza insistere) perché c'è molta gente che sa per propria esperienza che si possono dedicare moltissime ore all'inglese senza mai acquistare un senso di padronanza.

BERTINETTO - ... Vuol dire che l'esperanto resterà un bel sogno. Il senso della mia argomentazione è: meglio lasciar da parte gli argomenti deboli, e concentrarsi su quelli davvero cruciali. Il fatto poi che lei abbia avuto delle incertezze sulla coniugazione di un verbo inglese non significa gran che. Anche i parlanti nativi hanno dubbi di questo genere, tant'è vero che le lingue si modificano anche a causa di ciò. Ma questo fa appunto parte di quel tasso di complicazione che è fisiologicamente presente in ogni lingua naturale, e che tuttavia non scoraggia certo i parlanti dall'usarle.

PIRON - I parlanti nativi, certo, ma gli stranieri? Le condizioni

- ed i bisogni - sono diversi a livello internazionale. Ho notato che quando si dice che sei mesi di esperanto danno una capacità di comunicare superiore al livello raggiunto dopo sei anni di inglese (se le condizioni di età ed ore settimanali sono uguali), molta gente manifesta un vero interesse per la lingua di Zamenhof. Se fatti come questo fossero più conosciuti, gli atteggiamenti verso l'esperanto potrebbero essere differenti.

BERTINETTO - 7: Vorrei dissentire sul fatto della presunta cristallinità del cinese. Proprio la mancanza di morfologia flessiva finisce per indebolire la trasparenza sintattica di questa lingua. Lei ha avuto esperienza di vita in Asia, e dunque non ignorerà certo che, sul piano sintattico, il cinese non è affatto una lingua semplice. Ho evitato di toccare l'argomento nel mio scritto per il semplice fatto che, suppongo, nessuno pensa di proporre il cinese come lingua della comunicazione internazionale. Mi sono dunque concentrato sulle proprietà dell'inglese. Altrimenti avrei certamente toccato questo tema, che è di notevole interesse. Detto in altri termini: la semplicità della struttura, in una lingua, va valutata sul complesso delle sue componenti, anziché su un solo componente. La morfologia non esiste indipendentemente dalla sintassi.

PIRON - Esatto. Non ho parlato della cristallinità del cinese. Ho tradotto abbastanza pagine di cinese per saper bene quanto può esser impreciso. Ho citato il cinese soltanto per rispondere alla sua affermazione secondo la quale “non si dà lingua storicamente costituita che [...] sia priva di irregolarità”. C'è una irregolarità, o, meglio, un' eccezione, in cinese, ma una sola: la parola negativa bu non si usa con you `avere': si dice mei you.

BERTINETTO - 8: Lei ha certamente ragione. Tuttavia, i dati che io ho citato rafforzano il senso della mia argomentazione. Se si vuole creare allarme circa l'invadenza dell'inglese, conviene mostrare (fors'anche esagerare) la forza della sua penetrazione. Correggere al ribasso i dati, come lei suggerisce, avrebbe un indesiderabile effetto tranquillizzante.

PIRON - Come altrove nella mia lettera, il malinteso fra noi deriva dal fatto che mi sono collocato dal punto di vista della realtà presente, mentre Lei scrive pensando all'avvenire, a un progetto. Sono stato sciocco a dimenticarlo, ma ristabilire la verità è quasi un riflesso in me perché nel campo delle lingue s'incontrano di continuo affermazioni categoriche, spesso fatte su un tono di autorità indiscutibile, che contraddicono i fatti. [Questo è frequente anche riguardo al cinese. Se la questione la interessa, veda il mio articolo “Le chinois: idées reçues et réalités”]. Quando vedo tali affermazioni false non posso non reagire. Comunque, non sono sicuro che correggere i dati al ribasso avrebbe un effetto tranquillizzante. Potrebbe far capire che la realtà linguistica non è quella che si presenta dappertutto come data per scontata e quindi favorire un modo più critico di affrontare il problema.

BERTINETTO - 9-10: Mi pare che su questi punti siamo d'accordo, e non comprendo il motivo per cui lei li solleva.

PIRON - Sempre per la stessa ragione: le sue affermazioni non corrispondono alla realtà che conosco: l'esperanto è già così vivente da non bisognare che gli si insuffli vita; nella mia esperienza non è una lingua di élites.

BERTINETTO - ... Questo fatto mi turba un po': ho l'impressione che lei non abbia colto il senso filoesperantista del mio discorso. Il senso della mia argomentazione è: qualcuno potrebbe obiettare che... e tuttavia, a ben vedere, il problema non esiste.

PIRON - Sì, l'ho colto, ma Lei descrive un esperanto diverso dal mio, e io Le dico com'è quello che conosco. È sempre lo stesso riflesso, per cui, quando l'esperanto non è presentato nella sua vera luce, sento il dovere di richiamare l'attenzione sulla realtà quale mi è apparsa nel corso della mia vita. Tanti professori, giornalisti, corrispondenti mi hanno rimproverato di occuparmi di esperanto - spesso con un tono insultante - per cui ho dovuto trovare un modo di ristabilire la mia dignità. La tattica più efficace è risultata quella di fondarsi su fatti verificabili. Ma non pretendo che la mia reazione non sia esagerata.

BERTINETTO - 11-12: Mi fa piacere che, visto dall'interno, l'esperanto possa apparire come appare a lei. Ma, una volta di più, non credo che lei abbia colto il senso della mia argomentazione. Il problema è di scegliere gli argomenti che possono convincere gli scettici.

PIRON - Io non voglio convincere nessuno. La causa del nostro malinteso sta in questa differenza: Lei vede il problema sotto l'aspetto dell'azione (aspetto “conativo”), la mia lettera si limitava ai fatti, alla realtà presente, all'aspetto cognitivo. La vita mi ha insegnato che colui che vuol convincere non convince, ma suscita una resistenza. Molte persone non possono esser convinte, perché lo sono già e non vogliono (o non possono) cambiare il loro modo di vedere. Per esse, prendere l'esperanto sul serio è, quasi per definizione, un'impossibilità. L'onestà intellettuale è rara. Come Lei, incontro spesso gente (...) che storce il naso appena sente la parola “esperanto”. Posso dire che questa è l'esperienza generale, in particolare con gli intellettuali, (ma per fortuna non con i ragazzi e i giovani). La reazione è immediata, e la persona non si rende conto del fatto che reagisce in modo puramente emotivo, senza conoscenza del tema, senza avere gli elementi che bisognerebbe avere per esprimere un'opinione fondata.

BERTINETTO - .. Conosco molta gente (di sicuro molti linguisti, che sono una lobby influente in materie di questo genere) che storce il naso appena sente la parola “esperanto”. Non credo che voi esperantisti riuscirete mai a convincerli affermando che, per gli intenditori, l'esperanto risulta bello. Che poi così possa apparire a chi davvero lo usa, mi fa molto piacere. Ma è un argomento da tenere sullo sfondo; non mi pare che abbia forza persuasiva intrinseca.

PIRON - Ho parlato della bellezza, non per citare un argomento, ma soltanto per fare risaltare la differenza fra la sua percezione e la mia: per Lei, l'esperanto non può esser bello, per me lo è. La mia posizione è che se la gente, inclusi i linguisti, ha in mente un'immagine del tutto differente dalla realtà, la prima cosa da sperare è che se ne rendano conto, che gli venga in mente l'idea che, forse, l'esperanto non sia ciò che immaginano. L'oggettività mi pare essere una base indispensabile. Lei dice “voi esperantisti”. Essi non esistono, voglio dire che le persone che usano l'esperanto sono estremamente diverse, ce ne sono di quelle per cui è importantissimo che l'esperanto sia adottato in tutto il mondo, ce ne sono altre che vogliono soltanto che lo usi nell'Europa unita, ce ne sono che se ne infischiano di ciò che pensa la gente e della diffusione della lingua, contentandosi di godere i piaceri culturali e i contatti che offre, ce ne sono che credono nella forza di una argomentazione logica, ce ne sono che credono che non serva a nulla darsi da fare, che l'esperanto sia quasi programmato dalla storia e che basti aspettare un certo numero di decenni o secoli... Si tratta di una comunità disparata. Certo, questo non si vede di fuori.

BERTINETTO - Paradossalmente, il fatto che le mie osservazioni l'abbiano così profondamente turbata mi convince che, forse, sono sulla buona strada. Se avessi scritto un testo che piace senza riserve agli esperantisti, avrei pochissime probabilità di riuscire a convincere i non-esperantisti. Eppure, la strada da battere è solo quella. Se convincessi chi è già convinto, perderei il mio tempo. Sarebbe addirittura avvilente. La ringrazio dunque delle sue critiche, che sono per me un ottimo stimolo. Ho scaricato dalla rete un paio di suoi lavori, che leggerò con piacere. Grazie ancora, e cordialissimi saluti dal suo pmb

PIRON - Mille grazie per la Sua così pronta risposta. La prego di scusarmi se Le ho imposto oggi il mio dialetto personale dell'italiano e se ha sofferto leggendo queste mie righe. Non so perché l'ho fatto. Le prime frasi mi sono venute in italiano sotto le dita e ho continuato senza veramente pensare a quello che facevo. Cordialissimi saluti.

http://www.esperanto.it/html/fei/rivistaspeciale2003.htm