Torniamo al periodo immediatamente successivo alla guerra mondiale. Spunta un nuovo romanziere, un ungherese che già aveva esordito come poeta, Julio (esperantizzazione di Gyula) Bághy, che si ispira alla sua prigionia di guerra in Siberia, prolungata per 6 anni per la rivoluzione in Russia e la successiva guerra civile.
Il primo romanzo è Viktimoj (“Vittime”), del 1925, a cui farà seguito dopo 8 anni Sur sanga tero (“Su una terra insanguinata”). Le vittime sono allo stesso modo i prigionieri, di guerra ma poi anche civili, uomini, donne, bambini, e i loro guardiani, soldati, ufficiali, secondini. Vengono da popoli diversi, non li accomuna una lingua, ma la sofferenza: la fame, le malattie, il gelo, le marce forzate senza una meta, l’incertezza sulla propria sorte; le sporadiche visite della Croce rossa e l’arrivo saltuario di qualche corrispondenza da casa sono gli unici momenti di serenità. La trama passa in seconda linea rispetto ai dialoghi fra i diversi personaggi (Bághy era stato attore). Il protagonista dei due romanzi è Johano Bardy, alter ego dell’autore (anche nel nome), a cui fa da spalla l’amico Petro Doŝki: quanto il primo è un idealista, tanto il secondo è realista fino al cinismo; altri personaggi fanno da corona, alcuni anche con toni umoristici, e fra questi spicca il barbiere Mihok, che ritroveremo in opere successive. Varie donne si avvicinano a Johano, che resta fedele alla moglie( che si è rifatta una vita con un altro); l’ultima, Poliena, vedova rivoluzionaria che aveva perso un bambino, potrebbe legarlo a sé, ma vorrebbe trattenerlo in Russia, mentre lui è irrimediabilmente nostalgico della sua Ungheria. Il suo ritorno a Budapest, dove alla stazione si assiepano familiari in attesa, è l’ultima delusione: ad aspettarlo non c’è nessuno, e il suo pensiero ritorna a Poliena, abbandonata per nulla.
Alla Siberia ritorna nel 1937 La verda koro (“Il cuore verde”), scritto anche come testo di lettura per un corso di esperanto, con difficoltà crescenti e vocabolario più ricco da un capitolo al successivo. La trama stessa si basa su un corso di esperanto tenuto a prigionieri in una Casa del popolo siberiana; ne nasce un gruppo esperantista, e ai nuovi adepti si ripete la dichiarazione quasi programmatica “L’esperanto non è soltanto una lingua,ma un ideale che reca pace al cuore e cultura all’intelletto”; nascono interessi comuni e si formano anche coppie di nazioni diverse. Questa situazione viene bruscamente interrotta da un attacco giapponese, e alla fine i prigionieri europei sono riportati in patria, ma mantengono il ricordo di una comunità internazionale basata sul rispetto reciproco.
Per quanto in questa rassegna non vengano presentate le raccolte di novelle, vale la pena di accennare alle due in cui compare il sarto Mihok, già incontrato in Siberia, che diventa un esperantista entusiasta; è brillante soprattutto quella, pubblicata nella raccolta Dancu, marionetoj (“Danzate, marionette”, del 1927) e intitolata Kiel Mihok instruis angle (“Come Mihok insegnò l’inglese”). Mihok, diventato servitore di un ufficiale russo pur senza conoscerne la lingua, è incaricato da questo, che vuole visitare l’Europa, di insegnargli l’inglese, che lui non sa, e allora gli insegna l’esperanto; quando il suo inganno rischia di essere scoperto perché l’ufficiale si accorge di non poter leggere le didascalie delle figure in una rivista inglese, Mihok gli dice che l’inglese non si legge come è scritto e gli declama poesie in esperanto vagamente collegabili alle figure; quando poi viene in visita un altro ufficiale russo di ritorno degli Stati Uniti, Mihok spiega di aver insegnato la lingua (diversa) dell’aristocrazia inglese, e accompagna il suo padrone al gruppo esperantista, dove lo fa parlare con persone di nazioni diverse, e solo dopo gli confessa di averlo imbrogliato e ne ottiene il perdono.