«Mi pare che questa sia la conferma che il nostro Paese si marginalizza da solo. Già conta poco dopo le note vicende europee, il fatto poi di privarci volontariamente anche del primato della nostra lingua è una manovra suicida che non può essere accettata, ma che anzi merita una protesta che vada al di là dei soliti comunicati, appelli ecc. Bisognerebbe muoversi a livello legislativo». È in questi termini che il noto giornalista Vittorio Feltri, intervistato dal Segretario dell’Associazione Radicale Esperanto Giorgio Pagano, commenta la decisione dell’Ateneo meneghino di offrire dal 2014 corsi di laurea magistrali solamente in lingua inglese. «Certo è che si rimane stupefatti di fronte a certe scelte», prosegue Feltri che avverte «possono essere contagiose e credo saranno imitate.
Penso che lo studio della lingua inglese sia indubbiamente importante – precisa - ma deve essere una scelta personale, soprattutto deve essere una scelta personale quella di continuare a considerare la nostra lingua, che in alcuni campi è senza dubbio importantissima, al primo posto rispetto a tutte le altre». Insomma -così argomenta Feltri- si potrà anche correre il rischio di una marginalizzazione, ma data la nostra ricchezza in certi ambiti non è un rischio così e alto e soprattutto è preferibile questo al massacro annunciato, cioè alla svendita immediata del nostro patrimonio, con cui perderemmo tutto, in primis la possibilità di fare una vera internazionalizzazione in lingua italiana.
Per quanto concerne quello che può essere definito il dato occupazionale, cioè il fatto che l’adozione da parte di questa Università, e forse presto di altre, di testi in lingua inglese produrrà un incommensurabile danno all’editoria in italiano e agli autori che scrivono in questa lingua, Feltri ritiene che «ci sarà una ricaduta negativa a cascata su vari settori della vita italiana, compresa l’editoria» e aggiunge «ma penso che anche sotto il profilo della nostra reputazione nel campo dell’architettura, ad esempio, ci possano essere dei contraccolpi che non riesco a capire perché non siano stati valutati. Tutto questo non ha senso – precisa - forse riflette anche un complesso di inferiorità che a questo punto non è neanche più un complesso, ma un’autentica inferiorità che ci imponiamo», anche perché «noi in certi settori abbiamo mantenuto una reputazione altissima grazie alla nostra tradizione e rinunciarvi spontaneamente non posso definirla in altro modo che una follia».
«Penso che questa faccenda non debba finire qui – aggiunge Feltri -. Ci saranno, mi auguro, degli sviluppi, un seguito. Mi voglio augurare che qualcuno si opponga e che faccia delle proposte, in modo tale che si possa uscire da questa situazione prima che diventi una catastrofe. Mi si accappona la pelle a pensare che possano succedere cose di questo tipo. Per esempio a livello di restauro è indiscussa la centralità italiana che anche per l’insegnamento di quest’arte dovrebbe rimanere: se ci sono studenti coreani, cinesi o americani che vogliono imparare l’arte del restauro, è chiaro che devono venire qui, e perché noi dovremmo rinunciare alla nostra lingua per comunicare una cultura che è nostra, è nata qui, è nata in Italia con l’italiano e tale deve rimanere?».
In merito al concretizzarsi di una vera e propria occupazione da parte britannica del suolo italiano, considerando che l’Università milanese dalle varie sedi distaccate, coi suoi 40.000 studenti per ciclo di laurea quinquennale, si appresta a divenire una sorta di nuova enclave britannica alla stregua di Gibilterra, Feltri asserisce: «Penso che ci sia anche questo problema da considerare. Fra l’altro tutto ciò contrasta con la nostra cultura. Noi siamo abituati a rispettare le minoranze linguistiche, per accorgersi di questo basta fare osservare il Tirolo, in Alto Adige: c’è la volontà di lasciare incontaminata quella specificità linguistica. Mentre dall’altro lato andiamo a fare operazioni di questo tipo che non hanno nessun significato che non sia negativo».
Alla domanda del Segretario Pagano, infine, sul possibile rischio di una secessione del Nord Italia per via linguistica, rischio che si è palesato anche attraverso il discorso inaugurale dell’anno accademico del Rettore Azzone del 7 ottobre scorso, che paventerebbe la realizzazione in ambito universitario di ciò di cui sostanzialmente Maroni discute a livello regionale, il giornalista afferma: «È un pericolo, e tra l’altro è un pericolo che io vedo anche camminando per strada, perché quello che sta accadendo è frutto di una mentalità che va consolidandosi. Persino i negozi non hanno più nomi italiani: i bar, i ristoranti. Io qualche volta per tornare a casa passeggio in centro a Milano e vedo cose di questo tipo, che secondo me rivelano un desiderio che non è neanche tanto inconscio di adottare, magari anche storpiandola, la lingua inglese a tutti i costi, anche quando non c’è necessità. Si sta, addirittura, imbastardendo il linguaggio dei ragazzi, fenomeno che probabilmente al Nord è più accentuato rispetto al Sud. Pertanto questo rischio è più di un’impressione, più di un timore, è già nella realtà e bisognerebbe correre ai ripari», ha concluso.