Non stupisce che la competitività delle imprese italiane si sia ridotta a zero, basta sentire cosa dice Squinzi che le rappresenta. Solo chi non ha capito niente del valore intrinseco alla lingua e alla cultura tecnico-umanistica italiana può parlare di anacronismo nella battaglia contro l’esclusione della lingua italiana dal brevetto unico europeo.
Sentire dal Presidente di Confindustria che "si brevetta dappertutto in inglese e nella competizione la difesa delle lingue nazionali, pur condivisibile, nel caso del brevetto unico e' irrealistica, fuori dal tempo, dall'attualita' di oggi e non puo' essere un fattore di ritardo" c’è da chiedersi se Squinzi è a conoscenza che in Giappone, in Francia, in Germania, in Cina non si brevetta affatto in inglese.
Del resto le sue esternazioni sono doppiamente false, perché la cooperazione rafforzata prevede altre due lingue, francese e tedesco, dato importante considerando il fatto che un oligopolio è sempre meglio di un monopolio e che, mentre Francia e Germania sono riuscite ad imporre le loro lingue, Spagna e Italia no. Perché infatti le Pmi italiane dovrebbero brevettare in inglese invece che avvalersi di una delle altre due lingue?
L’ERA sostiene da sempre la necessità del brevetto europeo, così come di una difesa europea e dell’indipendenza europea tout court, caratterizzate però in senso federale e con una lingua comune federale, appunto.
Qualsiasi altra soluzione è in contrasto con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. L’esclusione dello spagnolo (seconda lingua al mondo per numero di madrelingua e idioma valido ai fini del brevetto internazionale) e dell’italiano (“lingua d’adozione” per eccellenza e quarta più studiata al mondo, oltre che lingua di un paese fondatore della UE) dalle “lingue di lavoro” è una scelta ridicola, dettata da arroganza e meri rapporti di forza interni all’Europa. Un’Europa allo sbando che si accinge a replicare i suoi errori, visto che come riferimento legale per dirimere le controversie legate al nuovo brevetto “unico” europeo si è optato per un tribunale itinerante Parigi-Monaco-Londra, cioè un carrozzone burocratico inutilmente costoso, anche se mai all’altezza di quello parlamentare che vede, ad ogni cambio di sessione, 150 tir con le casse dei documenti di ciascun europarlamentare andare su e giù tra Bruxelles e Strasburgo.