Giorgio Bronzetti

I commentatori politici di ogni testata giornalistica tracciano in questi giorni dell’ultimatum a Saddam scenari vari con i probabili capovolgimenti in Medio Oriente, in cui gli attaccanti non si fermerebbero a Bagdad e si spingerebbero fino a Teheran, per poi regolare i conti anche con la Corea del Nord, in un crescendo egemonico avente l’obiettivo della creazione di una solida "pax americana", l’ordine basato sulla potenza militare, con un conseguente aumento del predominio angloamericano e di tutto ciò a questo collegato, come la lingua.

Questa ipotesi naturalmente porrebbe l’ONU, del tutto inascoltata durante queste operazioni punitive delle nazioni "canaglie", di fronte all’alternativa o di sciogliersi o di porsi in rappresentanza (non spingiamoci a parlare di antagonismo) del mondo non anglosassone. E questo è il punto. Queste crociate contro le canaglie, per liberare gli oppressi o per il petrolio da una parte e per la pace e la convivenza pacifica dall’altra con tanto clamore in tutto il mondo stanno nascondendo la vera ragione dei contrasti in seno alle Nazioni Unite: la contestazione del predominio assoluto del mondo anglosassone e l’anteposizione degli interessi di Stato da parte di alcune nazioni, in primis la Francia di Chirac.

Nell’editoriale del 19 marzo del Corriere "La Bomba Diplomatica", Piero Ostellino cita il New York Times e il Washington Post per avvalorare la sua tesi che < la crisi irachena è, dunque, solo un capitolo, per quanto importante, del processo di formazione di un nuovo sistema internazionale la cui ombra già si proietta oltre la crisi>.

Il fatto che in Francia non pendano dai balconi bandiere della pace —come afferma l’opinionista del Corriere- indicherebbe che la maggioranza dei cittadini francesi percepiscano l’attuale atteggiamento del governo come un rafforzamento della Francia nei confronti degli S.U. e che in primo piano vi siano gli interessi nazionali. Lo stesso si potrebbe dire di altri Paesi, come la Germania, con la prospettiva, dal punto di vista linguistico, secondario ma non troppo, che questa tendenza a ridimensionare il predominio angloamericano porti a più attente riflessioni sulla imposizione a tutti i costi dell’inglese e che si avverta più chiaramente l’esigenza di una democrazia della comunicazione.

L’inglese dello slogan delle "tre i" di Berlusconi potrebbe diventare "lingue", lingue dei Paesi più a contatto con il nostro come la Germania e la Francia, o anche i Paesi Arabi seguendo l’esempio della Bonino, e l’esperanto per i contatti col mondo.