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DIS-A216

 

L'insegnamento delle lingue straniere: uno studio iniziale delle politiche linguistiche e  conseguenze per l'esperanto.

 

                                               François Grin - Università di Ginevra

 

Relazione  presentata in occasione del Congresso Universale dell' UEA in Firenze il 30/07/2006

 

 

PREMESSA

 

Signore e signori,

sono onoratissimo dell'invito a prendere la parola nel Congresso Universale del 2006. Desidero quindi iniziare con l’esprimere  i miei ringraziamenti agli organizzatori di questo Congresso, e tra gli altri al Prof. Renato Corsetti.

Ringrazio anche le persone che hanno partecipato alla traduzione del mio intervento giacchè io non parlo esperanto. Riesco a leggere articoli specifici in Esperanto (cosa spesso utile nel mio lavoro), ma non a parlarlo. Diciamo che in questo momento io riesco a pronunciarlo, essendo stato invitato a farlo per la prima volta in pubblico.

Se io oggi sono qui, e se Renato Corsetti gentilmente ha invitato me, la ragione è semplice: lo scorso anno ho redatto, per il Ministero francese dell'istruzione nazionale, un rapporto sull'insegnamento delle lingue straniere. E quel rapporto ha avuto una certa eco nella comunità esperantista.

Io vorrei dunque illustrare meglio tale relazione, precisando nel frattempo, poichè la cosa non sempre è stata ben compresa, ciò che esso espressamente dice e ciò che sottintende. Ciò mi indurrà ad inoltrarmi in un altro tema, cioè quello del possibile utilizzo di tale relazione e dei modi in cui la comunità esperantista, cui io non appartengo, potrà rendere noto il suo intrinseco messaggio.

 

LE ORIGINI del rapporto “L’insegnamento delle lingue straniere”

 

Farò un pò di cronistoria. Alla fine del 2004 sono stato contattato dal Ministero francese per la pubblica istruzione, e più precisamente dal Consiglio Superiore per la valutazione delle scuole (Haut Conseil d'évaluation de l'école). Tale Commissione è stata incaricata  dal Ministro a fornire opinioni su diversi temi circa la politica e l'amministrazione della pubblica istruzione.

Le circostanze del tempo erano le seguenti: una specifica commissione (la Commissione per un dibattito nazionale sul futuro della scuola, presieduta da Claude Thélot), alcuni mesi prima aveva presentato una imponente relazione di centinaia di pagine con il titolo Per il successo di tutti gli studenti.

In questo testo, comunemente indicato dai mass media Rapporto Thélot, veniva evidenziato l'obbligo per tutti gli studenti di imparare l'inglese, o più esattamente ciò che il suddetto rapporto chiama "la lingua inglese per la comunicazione internazionale". Tale raccomandazione è stata alquanto strabiliante sotto diversi aspetti:

  °   per prima cosa, essa segue tre linee guida: nessuna considerazione, nessun

      chiarimento, nessuna cifra - soltanto la raccomandazione.

  °   per seconda, la nozione "lingua inglese per la comunicazione internazionale" non è   

      stata per niente definita. Si tratta della lingua inglese o di una lingua inglese 

      semplificata? Ed in questo caso, semplificata come, da chi, e perchè?

  °  in terzo luogo, quando si saprà che in ogni modo all'incirca il 97% dei giovani

      francesi ha già scelto di studiare l'inglese, o come prima lingua o come seconda

      lingua straniera (pressocchè in tutte le strutture scolastiche sono obbligatorie due

      lingue straniere), perchè dunque imporre lo studio dell'inglese al rimanente 3%?

Naturalmente ci si è trovati in una particolare situazione per cui la logica del ragionamento sembrava venisse subordinata a pregiudizi o ad una mera ideologia.

Ebbene la "HCéé" (Haut Conseil d'évaluation de l'école), come abbiamo appena precisato, ha una missione molto chiara: esprimere opinioni relative alla realizzazione concreta delle direttive che informano relazioni quali il rapporto Thélot. In tal caso la "HCéé" richiede studi più mirati, come quello a me richiesto riguardo all'insegnamento delle lingue straniere in Francia.

Secondo il mio punto di vista l'aiuto, che io potevo offrire ai francesi, è stato di proporre loro un'analisi critica, persino contestuale, delle direttive contenute nel rapporto Thélot, più che consigli sulle modalità di esecuzione.

Comunque ai miei futuri "clienti", allorquando mi contattarono, ho risposto che il mio contributo non sarebbe stato rivolto alla didattica dell'inglese (di per sé cosa studiabile in maniera del tutto legittima ma in cui altri sarebbero più competenti), bensì che acconsentivo a ricevere il loro mandato solo a condizione di poter studiare i veri problemi e cioè la scelta delle lingue straniere da insegnare e i motivi di questa scelta.

Fin da principio ho aggiunto che molto verosimilmente, poichè non potevo prevedere le mie stesse conclusioni,, la mia relazione sarebbe giunta alla conclusione che la raccomandazione su "l'inglese obbligatorio per tutti" era pericolosa, a causa della sua inefficienza (secondo i parametri di attribuzione delle spese), e ingiusta (secondo i parametri di distribuzione delle spese). In altre parole li avvertii che la mia relazione avrebbe rischiato di sparpagliare alcune "mucche sante". Ma essi accettarono le regole del gioco, e perciò io rendo omaggio al presidente del Hcéé e al segretario generale del medesimo: essi permisero un dibattito intellettuale e mi incaricarono di effettuare un'analisi, che mi avrebbe trascinato molto più lontano di quanto avessi immaginato all'inizio.

 

Metodo e risultati: alcuni punti importanti della relazione

 

Comprensibilmente non c'è il tempo sufficiente in questa sede per entrare nei dettagli della relazione: in aggiunta, essa ormai è già stata dibattuta all'interno della comunità esperantista e, probabilmente, alcuni di voi già la conoscono. Rammenterò dunque soltanto alcuni punti essenziali che concernono il metodo e i risultati. Il metodo adottato si basa sulla comparazione fra tre scenari di comunicazione nel contesto dell'Ue. Persino nell'ambito di tale scelta la sfida risultava molteplice:

 dapprima, secondo un livello concettuale, gli scenari, sebbene spesso accennati, sono raramente descritti secondo metodi rigorosi che rendano possibile il confronto. Di conseguenza, doveva cominciare con la presentazione dei diversi scenari possibili.

 In secondo luogo, ad un livello metodologico, i criteri di confronto non sono rigidi e perciò doveva elaborare e provare tali criteri.

In terzo luogo, ad un livelo empirico, doveva sviluppare una strategia di elementi valutativi al fine di avvicinarsi a quella realizzazione.

Scenario 1: "solo inglese". L'Ue (a livello sovranazionale o statuale) esprimerebbe una scelta in un ambiente linguistico fortemente anglicizzato, in cui l'inglese godrebbe di una posizione egemonica. Alcuni dicono che tale scenario di fatto ormai è già chiaramente in atto. Io in massima parte concordo, sebbene con alcune riserve circa le conseguenti conclusioni.

Scenario 2: plurilinguismo.  La comunicazione avrebbe una finalità rigorosamente plurilinguistica e sarebbe la via sufficientemente vicina al movimento ufficiale europeo, che incessantemente gli addetti ai lavori dell'Ue ribadiscono. Quindi il plurilinguismo sarebbe utile per evitare  l'egemonia di un'unica linga. Ma per la nostra conoscenza dei grandi dinamismi delle lingue è molto difficile assicurare un plurilinguismo sostenibile sia nella sostanza e sia nella durata. Ciò è possibile soltanto in presenza di sufficientemente forti organizzazioni collaterali.

Scenario 3: esperanto, per cui si presuppone che tutti imparino e usino l'esperanto, o che tale lingua venga usata quale "relé" (lingua-ponte), nelle traduzioni e nella attività degli interpreti).

Prima di passare ai risultati in cifre, sono necessarie due considerazioni:

1) -  un confronto dettagliato fra i tre scenari sarebbe troppo difficile da realizzare, principalmente nel tempo limitato concesso dal Hcéé, e perciò ho preferito un metodo semplificato, che intenzionalmente tralascia tutti gli aspetti sociali e culturali. I numeri risultanti dall'esplorazione sono dunque approssimativi e perciò non costituiscono altro che un primo passo. Ho scelto sistematicamente la prudenza e, più verosimilmente, il prezzo derivante dall'egemonia linguistica sarebbe più alto di quanto io riferisco.

2) - Alcuni adducono, non senza ragione, la controindicazione, che noi già conosciamo, per l'ingiustizia di una lingua egemonica; anche se ciò è un pò difficile da provare, molti di noi ne avvertono l'inefficacia. Tuttavia è da ricordare che le masse in generale non ne sono consapevoli. Se dovessimo optare per una comunicazione più efficiente e più giusta, sarebbe utile fornire delle cifre sull'ammontare delle spese dovute all'egemonia linguistica e sul risparmio derivante dalla scelta di altre forme di comunicazione. Tale informazione potrebbe stimolare il pubblico e gli organi deliberanti a esaminare più attentamente le alternative all'inglese.

Per andare al nocciolo della questione ricordiamo semplicemente che una egemonia linguistica produce cinque tipi di espansione delle spese, e cioè:

1 - la efficienza di "mercati privilegiati". I possessori dalla nascita della lingua egemone godono di un quasi monopolio nelle attività di traduzione e di interprete, nell'insegnamento della medesima quale lingua straniera (almeno da un certo livello), nei servizi collegati (soggiorni linguistici, etc.) e nella produzione e revisione di testi, tutti compiti per i quali è generalmente necessaria una padronanza della lingua dalla nascita.

2 - La efficienza nel risparmio della comunicazione: coloro, la cui lingua materna è quella dominante, possono risparmiarsi la fatica di tradurre i messaggi  a loro inviati da corrispondenti usanti  altre lingue, poichè questi ultimi avranno già fatto lo sforzo di esprimersi in detta lingua. Per dippiù coloro, la cui lingua materna è quella universalmente adottata, non avranno bisogno di tradurre i propri messaggi in altre lingue;

3 - la efficienza di "risparmio nell'apprendimento di lingue straniere": i parlanti dalla nascita nella lingua superiore non hanno bisogno di investire tempo e denaro nello studio di altre lingue, il che costituisce un enorme risparmio. Malgrado gli enormi sforzi degli stati, impegnati nell'insegnamento delle lingue straniere, l'apprendimento di queste rappresenta insomma, per tutto il periodo preuniversitario, da 1500 a 2000 ore circa di insegnamento e praticandato (compresi i compiti a casa). Infine i risultati raggiunti rimangono insoddisfacenti, poichè la media dell'istruzione e del praticandato necessari per conseguire (nel caso dell'inglese) un livello di competenza comparabile con quello dei fruitori dalla nascita è valutata in 12.000 ore; ciò non è senza conseguenze grazie alla quinta efficienza (vedi sotto);

4 - la efficienza di "un investimento alternativo in capitale umano": il denaro non investito nella comunicazione con altri ambienti linguistici (ad es. attraverso l'acquisizione di una lingua straniera) può essere rivolto altrove, tra l'altro verso altre forme di investimento in capitale umano, così procurando vantaggi in altri settori ai parlanti della lingua egemone;

5 - la efficienza nella "retorica e legittimazione": i parlanti dalla nascita della lingua favorita saranno avvantaggiati nei casi di trattative e conflitti con i parlanti lingue diverse.

Ai fini della valutazione delle efficienze nei tre diversi scenari ho preso come base comparativa una situazione senza egemonie linguistiche, e ho valutato l'ampliamento della spesa risultante dall'attuale dominio dell'inglese. E' molto credibile che l'espansione sarebbe più alta se l'Europa scegliesse lo scenario 1, cioè una comunicazione internazionale esclusivamente in inglese.

Le valutazioni forniscono il notevole ammontare di almeno dieci miliardi di euro all'anno. Ai fini di un confronto ricordiamo che il famoso sconto, di cui dal tempo di formulazione di queste linee la Gran Bretagna gode nel suo contributo al bilancio dell'UE, (e su cui un aspro dibattito è riecheggiato durante l'anno 2005) raggiunge i 5 miliardi di euro l'anno. Di conseguenza le eccedenze di spesa, di cui la Gran Bretagna si approfitta, superano enormemente quella entità per almeno il doppio, perfino nelle ipotesi più limitative da me qui introdotte. Se si considerano le potenzialità moltiplicative e gli utili derivanti dalle somme risparmiate grazie all'egemonia linguistica, giungo a circa 16 o 17 miliardi di euro l'anno; sottolineiamo di nuovo che si tratta di valutazioni prudenti che trascurano tre importanti elementi di questa superspesa. Tra l'altro tralascio qualunque valutazione della efficienza nella "retorica e legittimazione". Tuttavia il risultato principale rimane: concedendo all'inglese una condizione privilegiata, gli stati europei (ad eccezione dell'Irlanda) di propria volontà trasferiscono, anche se incoscientemente, almeno 10 miliardi di euro l'anno alla Gran Bretagna, e certamente molto più. Cioè una somma che in qualunque altro campo della vita politica ed economica, sarebbe stata da lungo tempo denunciata come una evidente ingiustizia. Considerando queste cifre, una egemonia linguistica (a favore dell'inglese o di qualunque altra lingua naturale) può essere considerata come una soluzione grandemente ingiusta e inopportuna. Quando tali dati saranno maggiormente precisati - e di ciò essi hanno bisogno - potranno forse aiutare i governanti e le masse a comprendere che le soluzioni alternative al "solo inglese" sono da esplorare attentamente. Ciò mi porta alla richiesta di possibili raccomandazioni, al ruolo dell'E. in tali raccomandazioni, e alla maniera di farle conoscere.

 

Quali raccomandazioni... e quali strategie?

 

E' tempo di ricordare chiaramente un punto della mia relazione: esso non raccomanda un apprendimento generale dell'esperanto, bensì la scelta del plurilinguismo, che è una strategia complessa, in cui può trovar posto l'esperanto. La utilizzazione della mia relazione da parte di alcuni esperantisti può costituire per me un problema. A chiarimento del mio pensiero preciso la mia scelta ideologica. Io mi curo della diversità, poichè dal mio punto di vista l'uniformità rappresenta un vincolo incatenante. Comprensibilmente non si tratta di semplicismo e di una visione ingenua della diversità. Questa contiene in sè alcunchè di paradossale: nello stesso tempo essa è minacciata e minaccia, ma io credo che corrisponda ad un bisogno vitale dell'uomo.

I  miei primi lavori di giovane ricercatore hanno trattato la difesa di lingue minori, la kimra o la gaelica della Scozia. Da più di 12 anni ricevo richieste da linguisti francofoni: del resto attualmente sono membro della "Delegation à la langue française" nella Svizzera francese. Mi sono interessato anche delle lingue degli immigranti, dedicandomi particolarmente alla possibile coesistenza di un aiuto verso le lingue minori e il rispetto dei diritti linguistici eventualmente spettanti alle lingue degli immigranti. Il tratto comune, "il filo rosso" di questi interessi è la diversità linguistica.

Io mi interesso delle lingue minori (come la romanza nel mio paese) non secondo un punto di vista strettamente culturale o di identità, ma perchè esse costituiscono elementi favorenti la diversità.

Nella stessa maniera io valuto (e questo lo ripeterò ovunque) che la difesa della lingua francese non ha senso al di fuori di quella riguardante la diversità; e per evidenti motivi politici e geografici la lingua francese svolge un ruolo centrale in questa difesa. Sempre seguendo la stessa logica io non ho assolutamente nulla in contrario nei confronti della lingua inglese, che io amo moltissimo per averla parlata durante il mio soggiorno negli USA, e per il fatto che la maggior parte dei romanzi da me letti sono scritti in tale lingua. L'inglese medesimo è una parte importante della diversità.

Mi rivolgo all'espearnto. con lo stesso stato d'animo. Esso è un contributo alla diversità per due motivi: è una lingua accessoria, brillante e originale per la flessibilità e fecondità delle sue forme sintattiche. Inoltre il suo uso può contribuire a contrastare l'egemonia di una lingua. E perciò sono pervenuto alla conclusione che l'E. dovrebbe essere preso in considerazione. Ma al contrario dii quanto afferma Claude Hagège nel suo ultimo libro, io non raccomando l'apprendimento dell'E. quale "lingua dell'Ue".

L'esperanto è indubbiamente la migliore soluzione da un punto di vista ergonomico sia per il suo apprendimento, sia per il funzionamento delle strutture interne dell'Ue; ma la vita sociale, politica, economica e culturale degli europei è ben altra cosa. L'esperanto ha certamente un ruolo importante come elemento di una strategia di salvaguardia della diversità, in cui abbia ampio spazio l'uso delle lingue materne, riservando quello dell'esperanto laddove, per motivi di dinamismo politico che illustrerò in seguito, la diversità non è sufficientemente garantita. D'altra parte l'E. è il fulcro di ogni specie di pregiudizi, per cui non si può non tenerne conto quando si stilano linee guida di politica linguistica. In qualità di consigliere, non è mio compito fissare le linee di condotta, bensì illustrare le conseguenze legate alle varie scelte possibili a seconda delle priorità ideologiche e politiche. Se è chiaro questo punto, sarà ugualmente chiaro che, se avessi consigliato l'uso dell'E. in tutti i casi, non avrei portato a termine la mia missione, poiché la cosa sarebbe logicamente irrealizzabile, anche tacendo il suo carattere irreale da un punto di vista politico.

Devo sottolineare con dispiacere che alcuni, principalmente all'interno del movimento, hanno voluto farmi dire cose da me mai dette e far apparire la mia relazione imperniata sull'E. Apprezzo l'E. e, contrariamente ai miei colleghi, non ho alcun pregiudizio nei suoi confronti, ma mi rammarico se alcuni hanno occultato tutte le sfumature della mia posizione. E' "il comportamento di un elefante in un negozio di oggetti preziosi e fragili". Effettivamente qualche volta sono stato obbligato pubblicamente a tenere le distanze dall'esperanto. Ciò in ogni caso è un assurdo risultato, poiché credo di essere, al di fuori del movimento, una delle rare voci che affermano, per l'evidenza dei vantaggi e svantaggi offerti dalle varie singole scelte, la validità del contributo dell'esperanto alla soluzione del problema.

Preferisco concludere con l'eterna domanda: quale futuro per l'esperanto? Si tratta evidentemente di una domanda a cui ciascuno risponderà secondo le proprie convinzioni e interessi. Ma ciò non ci dispensa dall'esaminare alcune forme di propaganda. A tal proposito non bisogna dimenticare che attualmente l'esperanto è una lingua senza prestigio, sempre percepito da gran parte dell'opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione come un capriccio senza fondamento; mentre molte lingue minori riescono a rinvigorirsi e a dare di sè una immagine positiva, persino assurgere a valore modale, l'esperanto rimane senza speranze trascurabile, mentre le lingue degli immigranti esistono prima di un atto di legittimazione politica, principalmente nei sistemi educativi. Ciò è spiacevole, certamente frutto di ignoranza, ma si tratta di un fatto socio linguistico.

Conseguentemente non si può dare la precedenza all'esperanto come se non esistessero questi pregiudizi. Perciò è inutile, se non dannoso, assalire parlamentari e giornalisti, o funzionari superiori, a volte persino ministri, per comunicare loro che la soluzione risiede nell'esperanto. Bisogna all'uopo distinguere le finalità pubbliche ed apprestare le opportune informazioni con la massima cura. L'azione svolta, anche se ai limiti dell'iperattività, resta indubbiamente utile (sebbene con efficienza non sempre evidente) rivolta all'uomo della strada, al pubblico in generale. Ma per comunicare con i mezzi di informazione, con i legislatori o con i membri del governo occorre sicuramente comportarsi in maniera diversa in relazione sia al contenuto che alla forma del messaggio. Una eccessiva goccia di entusiasmo, una parola soltanto sottolineata un pò più marcatamente, un qualunque suggerimento che possa avere la parvenza di una pressione, il più piccolo accenno di argomentazione ingenua potrebbe inficiare il tutto, anche se per il resto con un giusto contenuto e una buona presentazione. Perciò mi spiace dire che, a mio parere, l'approccio con i parlamentari a mezzo informazioni sull'esperanto nelle quali è citata la mia relazione, non sempre è stato sufficientemente preparato. E ogni errore commesso rende il lavoro futuro ancora più difficile. Perciò io penso che una serena meditazione deve iniziare dalle finalità e modalità di comunicazione, mirate ad ambienti definiti, in particolare verso quelli della politica, economia e dei mezzi di informazione. Ciò non è lavoro per attivisti, che utilizzano il proprio sincero entusiasmo, ma di preferenza un lavoro per strateghi e professionisti della comunicazione, basato su un programma preciso e prudente. La domanda non verte su quale sia la forma migliore di azione; al contrario dobbiamo comprendere che si tratta di attività diverse, dirette ad un pubblico vario e da parte di attivisti diversi. La considerazione di queste diversità a me sembra assolutamente necessario per il futuro dell'esperanto che deve svolgere un ruolo più importante nel quadro di una generale strategia a favore della diversità.