(da Le Lingue del Mondo n.1 gennaio 1964)
La lingua è lo strumento necessario per la trasmissione del pensiero fra gruppi sociali diversi. Fin dai tempi più antichi, infatti, accanto a lingue il cui uso era limitato a singole società o a gruppi umani relativamente ristretti, si sono avute altre lingue utilizzate come mezzo di comunicazione internazionale. Il tipo delle cosiddette lingue franche, in uso specialmente nelle relazioni commerciali, è attestato e conosciuto in diverse parti del mondo. Una lingua del genere può essere una lingua nazionale, talora piuttosto modificata, ovvero un mezzo linguistico rudimentale, un « jargon », dal carattere misto, con forme grammaticali di dubbia origine, quale ad esempio il russo-norvegese che servì al cosiddetto « commercio dei pomory » (abitanti del litorale nord della Russia) coi norvegesi della Norvegia settentrionale fino alla prima guerra mondiale. Per più profonde relazioni formali o intellettuali è tuttavia necessaria una lingua più sviluppata. È naturale quindi che si siano dovute scegliere come lingue diplomatiche delle lingue nazionali. Nel secondo millennio a.C., nel Medio Oriente il babilonese era la lingua della diplomazia. Le cancellerie dei grandi e piccoli stati disponevano di funzionari che conoscevano perfettamente tale lingua. Più tardi fu il greco ad avere una funzione simile nel Mediterraneo.
Le grandi civiltà che fiorirono nel quarto millennio a.C.. diffusero tutte la loro influenza oltre le frontiere degli stati in cui ebbero origine, e la lingua fu lo strumento di essa. La più antica lingua da noi conosciuta, dimostratasi capace di simile azione civilizzatrice, in Europa fu il greco.
Imprestiti, che testimoniano dell'influsso civilizzatore che ebbe il greco, penetrarono nel latino fin da età assai remota, in primo luogo per il tramite dell'etrusco. Tali antichissimi imprestiti sono, ad esempio, oliva « oliva », oleum « olio », ma-china « macchina », malum « mela », ampora (più tardi scritto anphora] « anfora » con il suo derivato ampliila, massa « massa », gubernare « dirigere, governare », talentum « talento » (nel significato di moneta), camera « volta », bal-neum « bagno », ecc.
Durante il successivo periodo ellenistico l'influsso del greco sul latino divenne preponderante. Fin dai lontani tempi preistorici il greco si era parlato in una molteplice varietà di dialetti. Col sorgere dell'egemonia ateniese intorno al 475 a.C. e il conseguente fiorire delle lettere e delle arti, in Atene il dialetto attico-ionico diventò una koinè, una lingua comune, che sopravvisse alla supremazia ateniese, di così breve durata, grazie al prestigio culturale della città. Tale lingua non era la parlata dell'uomo della strada, ma l'idioma degli strati colti della popolazione, del-l' élite composta di filosofi, letterati, retori e uomini politici. Nell'impero di Alessandro e negli ordinamenti statali che ad esso seguirono questa lingua comune, sfrondata delle partico-larità troppo locali dell'attico, divenne la lingua dell'amministrazione, del commercio, e di larghi strati della popolazione. Essa servì come seconda lingua per le relazioni internazionali a popoli appartenenti alle altre antiche civiltà del vicino Oriente, cioè egiziani, arabi, siriaci, persiani, ecc. Nella Magna Grecia e in Italia la koinè si incontrò con un'altra lingua destinata a diventare una lingua mondiale, e che riuscì a fermare il moto di propagazione del greco verso occidente : il latino. Ma se il greco, in questa parte del mondo, non attinse una posizione ufficiale pari a quella raggiunta nel bacino orientale del Mediterraneo, esso penetrò di sé il latino a tal punto che il vocabolario di quest'ultimo, per qualsiasi cosa pertinente alle forme superiori di cultura, fu modellato sul greco. La metrica greca fu adottata dagli autori di commedie e tragedie, lo sviluppo della prosa latina nel primo secolo a.C. non può essere compreso senza tener conto del greco. Cicerone fu il grande strumento di questo processo. Egli conosceva il greco perfettamente, per avere studiato con un retore greco, e grazie ai suoi numerosi viaggi in Grecia. Nelle proprie lettere, egli incorre di frequente in citazioni dal greco, così come oggi saggisti inglesi o scandinavi riportano direttamente dal francese. Egli seppe adattare l'umanismo ellenistico alle esigenze dell'alta società romana. « Ciò che Cicerone ha latinizzato », dice Antoine Meillet, « non è già una cultura propriamente ellenica, bensì quanto della cultura ellenica s'era diffuso in tutto il bacino orientale del Mediterraneo. Ed egli ha latinizzato questa cultura non da specialista, ma da uomo di mondo, e del mondo politico ». Fu Cicerone a dare all'umanismo il suo particolare carattere. All'umanismo « Cicerone ha conferito carattere e valore pro-pri, facendone insieme un atteggiamento di spirituale eleganza e uno strumento d'azione. Inteso in tal senso, l'umanismo, greco per gli elementi che lo compongono, ma spogliato di qualsiasi caratteristica propriamente ellenica, è una creazione di Roma. In tal modo Cicerone, che ne fu il rappresentante più attivo, è uno dei creatori della civiltà universale moderna ».
Ma l'influenza greca non rimase limitata alla lingua del-l'élite. Termini greci erano particolarmente numerosi nella lingua del commercio. Mentre il vocabolario della tragedia è latino, i comici fanno abbondante uso di parole greche. Come scrive Antoine Meillet, « a Roma il vocabolario della vita seria era tutto latino, quello del piacere era greco ».
Dopo la caduta dell'impero romano la Chiesa continuò la tradizione civilizzatrice attraverso il latino, estendendola anzi a tutta l'Europa occidentale, settentrionale e centrale, mentre la parte ortodossa dell'Europa orientale subì l'influenza di Costantinopoli e dell'impero bizantino. Il latino divenne la lingua internazionale di tutta la cristianità cattolica romana. Il suo uso come lingua non rimase confinato al clero, alle università e alla gente di studio, ma si estese anche ai mercanti. Il libro norvegese Specu-lum regale fin dal XIII secolo consiglia al mercante di apprendere quante più lingue sia possibile, ma specialmente il latino e il francese, 'con cui si può andare molto lontano'. Prestiti di parole latine furono accolti in gran numero presso i celti, i teutoni, gli slavi occidentali e gli ungheresi. Senza dubbio il latino ha avuto una parte notevolissima nella creazione delle lingue letterarie nazionali d'Europa, non solo nei paesi di lingua romanza, ma anche fra i celti, i teutoni e gli slavi, fino alle soglie dell'epoca contemporanea.
Col sorgere degli stati nazionali si affermarono in Europa diverse lingue comuni usate nella pubblica amministrazione, lingue che diventarono veicolo di letteratura nazionale e che prima o poi finirono col sostituire il latino. Verso la fine del secolo XVIII, e nel XIX, si fece strada una teoria secondo la quale la lingua sarebbe il più importante elemento della nazionalità. La lingua fu considerata come la reale espressione del carattere d'una nazione, come un'emanazione dello spirito nazionale, del Volksgeist.
Ciò portò alla creazione di nuove lingue letterarie, e ta-lora alla rinascita di alcune delle antiche, specialmente nell'Europa centrale e orientale, usate da gruppi nazionali che politicamente aspiravano all'indipendenza. Di questi, alcuni raggiunsero tale indipendenza dopo la prima guerra mondiale. Molte lingue slave come il ceco, il serbo-croato, lo sloveno e, dopo la seconda guerra mondiale, il macedone, per ricordare soltanto queste, ottennero riconoscimento ufficiale. Parallelamente, nell'Unione Sovietica a un gran numero di lingue fu data forma scritta.
Questa moltiplicazione delle lingue è stata considerata come una seria minaccia all'unità culturale europea e alla esistenza stessa di stati composti di gruppi etnicamente diversi. Come conseguenza l'Europa ha sperimentato una speciale forma di oppressione, quella linguistica, particolarmente sciocca, dato che l'esperienza dimostra che il modo migliore di mantenere viva una lingua in via di estinzione è di tentar di sopprimerla con la forza. Simile tipo di oppressione era assai meno comune in passato. Fin dal tempo in cui la lingua fu considerata solo quale strumento di comunicazione, noi sappiamo di popolazioni che trovarono vantaggioso abbandonare il proprio idioma nativo. Nel 180 a.C.. i cittadini di Cuma chiesero al senato di Roma il permesso di poter parlare latino in pubblico, e che ai banditori fosse riconosciuto il diritto di usare il latino nell'esercizio della propria attività, diritto che ottennero. I Galli abbandonarono ben presto la lingua celtica, dopo il crollo finale della loro resistenza a Cesare. E persino oggi spesso è difficile, all'uomo della strada, comprendere la teoria dell'importanza della lingua in funzione della nazionalità. Mi è capitato di incontrare dei contadini di lingua irlandese che consideravano un gran vantaggio per i loro figlioli l'apprendimento della lingua inglese e altrettanto vantaggioso ignorare il gaelico, presentandosi l'inglese ben più utile sia nelle isole Britanniche sia in America. È tuttavia impossibile stabilire per quanto tempo ancora la teoria dell'importanza nazionale della lingua continuerà a resistere. Sebbene lo smembramento dell'Europa in un infinito numero di unità linguistiche possa essere di detrimento alla sua unità culturale, si deve tuttavia tenere bene in mente che all'istruzione generale è necessario, in primo luogo, l'uso della lingua materna del fanciullo.
Le nuove lingue letterarie hanno il vantaggio di essere vergini e di offrire particolari possibilità alla poesia. Una lingua nuova è meno ingombra di frasi stereotipate di quanto non accada per lingue con una lunga tradizione letteraria. È significativo, ad esempio, il fatto che la maggioranza dei poeti moderni norvegesi usino la più giovane delle due lingue letterarie della Norvegia, il Lands-mal, per quanto soltanto pochi di essi la parlino.
La fiducia nella speciale importanza della lingua per quanto riguarda la nazionalità, così diffusa oggi tra il pubblico di tanti paesi, poggia sulle teorie linguistiche dei primi glottologi moderni, all'inizio del secolo XIX. Tali dottrine furono sostenute più o meno dai linguisti fino a che essi furono esclusivamente interessati alla storia della lingua e legati alla metodologia atomistica del secolo XIX. Tuttavia, i glottologi sono orientati ora verso lo studio della lingua intesa come sistema, cioè come una struttura, e mirano a determinare le relazioni che possano intercorrere fra questa struttura e altri elementi sociali, ovvero con la società come un tutto, senza riguardo alla storia. Questa metodologia porta a diminuire l'interesse per la storia della lingua e a concentrarlo sulla sua efficienza, cioè sul modo in cui la struttura linguistica possa porsi al servizio di una società.
Le differenze linguistiche sono in Europa più apparenti che reali. Di fatto, le differenze fra le lingue europee tendono a diventare puramente esterne. Le lingue minori imitano la fraseologia delle maggiori e di più grande prestigio. « Pur con lessico e forme grammaticali diverse, tutte queste lingue sono reciprocamente dei calchi fra loro », scriveva il Meillet nel 1908. Tutte le lingue europee hanno adottato il vocabolario internazionale delle scienze e
della tecnologia, per la maggior parte di origine greco-latina. Alcune nazioni, come ad esempio tedeschi e cechi, mostrano il desiderio di nazionalizzare tale terminologia, -e sono favorevoli ai calchi, per esempio il tedesco ha Fernsprecher « telefono », Schauspiel « lavoro teatrale », Schauspielhaus « teatro », e il ceco ha dalekomluv « telefono », dìvadlo « lavoro teatrale » e « teatro », ecc. Ma i termini internazionali esistono nell'uso accanto ai calchi, e le due voci differiscono legger-mente nel senso.
In che modo una organizzazione europea può sperare di influenzare l'evoluzione linguistica dell'Europa e reagire ai dannosi effetti di un eccessivo frazionamento linguistico? Credo che sia prematuro tentare di cambiare la fede del pubblico nella speciale importanza della lingua in funzione della nazionalità. Un simile tentativo incontrerebbe una fortis-sima opposizione. Soltanto in prosieguo di tempo le nuove vedute sulla lingua troveranno accoglienza nel pubblico, così come è avvenuto in passato. Tuttavia si potrebbe fin d'ora reagire all'uso esagerato di calchi dal vocabolario internazionale. È ben noto che una delle maggiori difficoltà per l'apprendimento di una lingua è rappresentata dal vocabolario, dalla necessità cioè di imparare diverse migliaia di nuove parole. Per l'europeo colto di oggi si impone la necessità di apprendere almeno una lingua straniera — per certe categorie di persone anche più d'una — e l'esistenza di un vocabolario internazionale comune facilita questo compito. Si può rilevare che un calco semantico come Fernsprecher rimane pur sempre un prestito; la sua differenza da « telefono » poggia soltanto sul fatto che è composto di differenti fonemi.
L'unità culturale europea sarebbe favorita se in ogni paese si introducesse già nella scuola primaria lo studio di una lingua straniera, scelta fra una delle maggiori lingue di cultura. Ciò è già avvenuto in alcuni stati europei, ad esempio in Norvegia, dove si insegna l'inglese nelle due ultime classi della scuola elementare. E al fine di ottenere i risultati desiderati non è necessario che gli allievi debbano diventare realmente bilingui. Sarebbe sufficiente una conoscenza limitata alla comprensione immediata dello scritto e del parlato.
Ci si potrebbe domandare ora se una lingua artificiale come l'esperanto non potesse rappresentare il modo migliore di favorire l'unità dell'Europa. È evidente che fino a quando le grandi nazioni in possesso delle risorse atte a consentire loro di mantenersi alla guida del progresso scientifico non useranno un idioma artificiale del genere, le nazioni minori dovranno assoggettarsi a imparare la lingua di quelle, se vorranno rimanere al livello del progresso della cultura. Perciò una lingua artificiale, sia pure tanto facile, costituirebbe un fardello supplementare. La stessa obiezione potrebbe farsi nei confronti del cosiddetto « Basic English » e del « Francais Elémentaire ». Chi conosca soltanto il « Basic English » non potrà mai leggere un comune testo inglese, né ascoltare alla radio una trasmissione in inglese. Se poi vorrà dedicarsi più a fondo all'apprendimento della lingua inglese, si troverà costretto a disimparare certe cose che gli erano state in precedenza insegnate, il che costituisce sempre un compito abbastanza difficile.
Quando, durante l'ultima guerra, Sir Winston Churchill pronunciò il suo discorso in favore del « Basic English », una commissione formata dai rappresentanti dei ministri della pubblica istruzione in esilio a Londra fu chiamata a discutere il problema di adottare il « Basic English », oppure una lingua artificiale. La commissione presentò un rapporto in cui si controbatteva una simile proposta e si consigliava l'introduzione, al livello delle scuole primarie, di una grande lingua straniera. Più specificatamente si proponeva che i paesi di lingua inglese dovessero scegliere il francese, e quelli di lingua francese scegliessero l'inglese.
La storia mostra chiaramente che l'integrazione culturale dell'Europa continuerà se il mondo non sarà sconvolto da una rovinosa catastrofe. Se vogliamo facilitare e affrettare questo processo di integrazione, sarà necessario affrontare i problemi linguistici che esso comporta. Dei quali, a mio avviso, il più importante è quello che verte sul modo di diffondere la conoscenza delle principali lingue di cultura a tutti i paesi europei e a tutti i livelli sociali.
ALF AXELSON SOMMERFELT,
uno dei più eminenti linguisti viventi, è nato a Trondheim, da famiglia norvegese, nel 1892. Ha studiato a Oslo, Montpellier e Parigi, dove si è laureato nel 1921; quindi, dal 1914 al 1919, ha compiuto originali indagini sulle lingue celtiche in Manda, nel Galles e nella Bretagna. Nel 1931 ha svolto ricerche linguistiche nel Caucaso. Docente all'Università di Oslo dal 1918, vi ha tenuto la cattedra di glottologia dal 1931 al 1962, ricoprendo altresì le cariche di preside della facoltà di lettere e prorettore. Durante la guerra è stato direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione del governo norvegese in esilio a Londra; dal 1946 è segretario generale del Comitato Internazionale Permanente dei Linguisti; nel 1957 è stato presidente del VII Congresso Internazionale dei Linguisti. Oltre che membro di molte accademie, è dottore honoris causa delle Università di Oxford, di Glasgow, di Dublino e del Galles. Del Sommerfelt piace a noi ricordare la profonda ed affettuosa conoscenza che egli ha dell'Italia, dove ha trascorso un anno nel periodo della sua formazione scientifica e dove è più volte tornato. Della vastissima opera di questo insigne studioso offre un quadro completo il volume Diachronic and Synchronic Aspects of Lan-guage, edito all'Aja dalla casa Mouton & Co., che raccoglie, in inglese e in francese, i più significativi studi del Sommerfelt sui problemi della linguistica generale, su fonematica e fonetica, sulla grammatica comparata indoeuropea, sui problemi del vocabolario e sulla storia delle lingue germaniche e delle lingue celtiche. In tale prezioso volume i nostri lettori troveranno, sviluppate con maggiore ampiezza, queste originali considerazioni del Sommerfelt sui problemi linguistici che pone l'unità europea che è, oggi, un'aspirazione e un'esperienza di tutto il mondo occidentale.