Jacques Roman

 

Il sistema dell'"interpretazione reversibile", o delle "lingue-perno",
immaginato dai servizi amministrativi dell'Unione Europea, ha perlomeno il
merito di mettere ben in evidenza la difficoltà del plurilinguismo
all'interno delle organizzazioni internazionali.
Il problema fondamentale, semplice da definire e difficile da risolvere,
consiste nell'assicurare l'uguaglianza di trattamento di tutte le lingue
ufficiali a delle condizioni materialmente razionali.
Mi sembra evidente che la soluzione è prima di tutto un affare di volontà
politica. Mi asterrei quindi di accusare le istanze amministrative dell'UE
di ricorrere a degli espedienti lì dove chiaramente esse non dispongono di
istruzioni generali che li avrebbero evitati.


I fatti
Le realtà linguistiche, noi le conosciamo:
l'inglese conquista sempre più egemonia. Le organizzazioni internazionali,
benché plurilingue per legge, lo sono raramente nei fatti. Nella maggior
arte degli organismi del sistema delle Nazioni Unite, l'inglese rappresenta
la grande maggioranza (70-80 % presso l'ONU stessa!) dei testi originali. La
tendenza è meno netta per la lingua parlata, ma è sintomatico il fatto che
un diplomatico francese, rivolgendosi recentemente ad un organismo
intergovernamentale della Commissione economica regionale a Bangkok (dove il
francese è da tempo la lingua ufficiale di lavoro), abbia chiesto che lo si
scusasse per l'esprimersi in francese in quanto aveva ricevuto tale
istruzione dal suo governo. E questo da un paese reputato geloso protettore
della propria lingua!
Per dire il vero, nelle organizzazioni internazionali, solo l'inglese gioca
pienamente il ruolo di lingua di lavoro: dobbiamo sapere infatti che per il
momento c'è lui da un lato e, dall'altro, delle lingue d'interpretazione e
di traduzione a partire dall'inglese.
È ben risaputo che linguaggio e pensiero sono in simbiosi e che ogni lingua
ha due funzioni: la comunicazione e la concettualizzazione. Nelle
organizzazioni internazionali (soprattutto i loro segretariati), l'inglese
monopolizza l'espressione dei concetti e, come del resto è normale,
privilegia in questo modo, con delle varianti nazionali e regionali, i
concetti dettatigli dal suo proprio contesto sociocultruale e politico.
Questa situazione dipende chiaramente in primo luogo dall'evoluzione
politica e mondiale degli ultimi 60-80 anni; dipende inoltre dalla tendenza
dei governi e dei funzionari stessi; va da sé che la responsabilità dei
segretariati è schiacciante: all'ONU, per esempio, dove le istruzioni
dell'Assemblea generale, come quella che proibisce le riunioni informali
destinate a schivare l'interpretazione e la traduzione, sono superbamente
ignorate.
Il paradosso: la lingua inglese è una delle prime vittime della sua stessa
egemonia. Essendo sempre più mal usata nelle organizzazioni internazionali
(sia nel parlato sia nello scritto), essa diventa rudimentale, e i suoi
utilizzatori approssimativi hanno difficoltà a rendere correttamente una
nozione un tantino inusuale; questo spiega in parte l'abbondanza di truismi
e di ripetizioni dettate dalla prudenza (assieme alla pigrizia) e che
caratterizza troppo spesso i testi emanati dalle organizzazioni
internazionali.
Una triste evoluzione, soprattutto se si pensa ad una organizzazione a
vocazione federalizzatrice come l'UE: in effetti, chi vorrà sentirsi
cittadino europeo, se si sente ufficialmente marginalizzato per la propria
lingua dalle istituzioni destinate a governare la sua vita quotidiana?
La questione allora dovrebbe essere quella di restaurare tutte le lingue
ufficiali presso l'UE e le altre organizzazioni, nella loro doppia funzione
di comunicazione e di concettualizzazione.
Una soluzione gestionale?
L'ideale sarebbe che tutto il mondo possa andare avanti sempre con la
propria lingua naturale o, in mancanza di questa, con la lingua ufficiale di
propria scelta.
Forse questo non è interamente possibile, ma, almeno nelle relazioni
intergovernamentali vi si può tendere.


Andare più lontano: verso la lingua-ponte univesale
È già da tempo che si è suggerito di ricorrere ad una vera lingua ausiliare
per le relazioni (LAR), o lingua-ponte, pensata fin dall'inizio per
permettere la comunicazione razionale tra lingue nazionali senza l'idea di
sostituirle o di dominarle. Nessuna lingua naturale potrà ambire ad un tale
posto: l'inglese, che lo occupa per mancanza d'altro e per delle ragioni
congiunturali (definisco con "congiunturale", in questo campo, tutto ciò che
non è durato più di 100 anni) forse ancora meno di altre a causa del suo
carattere fortemente idiomatico e contestuale, della sua pronuncia
irregolare e delle sue connotazioni socioculturali (ed anche politiche)
sempre marcate.
La vera lingua-ponte sarà senza dubbio artificiale e volontarista. La
grammatica, il lessico, la grafia e la pronuncia saranno strettamente
normalizzate, su una base di regole e forme il più possibile semplici e
generalmente accettate. Questa lingua sarà dunque adatta ad assorbire,
trattare e sviluppare ognis orta di lessico proveniente da tutti i tipi di
lingue. Essa sarà neutra nel senso che accoglierà tutti i concetti senza
voler produrre discriminazioni politiche, sociali o culturali e, soprattutto
essa non cercherà di sopraffare un'altra lingua o cultura, ma di facilitare
e sviluppare le relazioni tra tutte le lingue e tutte le culture. Essa sarà,
in colclusione, lo strumento ideale della comprensione e dunque della pace
internazionale.
La sua messa in pratica non esigerà uno sofrzo finanziario smisurato, in
quanto avverrà progressivmente (20-30 anni o forse di più). Si comincerà col
dotarsi degli strumenti richiesti (dizionario elettronico mondiale,
glossario operazionale multilingue e bilingue, programmi di traduzione
assistita dal computer, ecc.) e allo stesso tempo familiarizzando i
responsabili linguistici, cominciando dagli esperti di terminologia, e gli
amministratori delle organizzazioni con le risorse e i meccanismi della
lingua-ponte. È solo poco a poco che gli altri funzionari
dell'organizzazione saranno chiamati ad utilizzare la nuova lingua
universale. Qualunque siano il ritmo e gli investimenti iniziali, esiste la
certezza di economie e facilitazioni considerevoli alla fine del percorso.
Quanto all'obiezione maggiore, l'"irrealismo" supposto nel passaggio ad una
lingua universale (visto come evoluzione che si può realizzare solo in
maniera naturale), è raro che un argomentazione seriosa possa sostenerla;
essa viene comunque smentita dalle numerose riforme volontariste già
realizzate nel mondo. Non consideriamo sistematicamente i nostri desideri
per delle irrealità: d'altronde quale irrealismo peggiore di quello dei
pregiudizi?
Una lingua ausiliare per le relazioni comunque funziona già: sto parlando
naturalmente dell'esperanto. Secondo gli esperti (ai quali mi rifaccio non
essendo io stesso un esperantofono), occorrerebbero 300 ore di pratica per
dominare questa lingua, che suppongo ampiamente perfezionabile ed
adattabile, ed il cui lessico tecnico riprenderebbe senza dubbio, in una
forma riconoscibile ma regolare, molte delle espressioni internazionalmente
volgarizzate dall'inglese attraverso il suo attuale pseudoruolo di lingua
universale. L'UNESCO ha adottato nel 1954 e nel 1985 diverse raccomandazioni
in favore dell'esperanto. Forse sarebbe ora di darvi un serioso seguito,
almeno per aprire un dibattito generale sull'adozione di una vera lingua
universale pienamente funzionale.
Delle prospettive professionali affascinanti
E cosa dicono i professionisti delle lingue di tutto questo?
Il passaggio ad una lingua ausiliare per le relazioni universali, esperanto
o altro, valorizzerebbe radicalmente il loro mestiere mettendo a loro
disposizione un mezzo universale e razionale, non solamente per l'analisi e
la comparazione teorica, ma anche per l'azione concreta in ambiente
internazionale multilingue.
Con la concretizzazione di una vera lingua-ponte universale e con le risorse
esponenziali della nuova informatica (dizionari elettronici, traduzioni
assistite dal computer) l'ugualianza linguistica non apparirebbe più
impossibile. Gli scambi interlinguistici diveneterebbero molto più frequenti
e produttivi. Editori, interpreti, esperti di terminologia, traduttori ed
altri operatori linguistici coopererebbero per forza di cose in maniera più
attiva a questo sviluppo rispetto al passato.
Una prospettiva che ha tanto di entusiasmante e, in tutti i modi, più dello
status quo, che personalmente definirei come la crescente mnopolizzazione
dei concetti da parte i una lingua, con la conseguenza finale di una
uniformizzazione anemizzante dei modi di pensare.

Jacque Roman è stato direttore della Sezione dei trattati presso l'ONU di
New York e direttore del Gruppo francese della Sezione dei servizi
linguistici presso l'ONUCESAP di Bangkok.

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18/11/2003