1. I Trattati e la pratica delle istituzioni europee.
Le istituzioni europee sono una costruzione sui generis con importanti aspetti di sopranazionalità, che ha come progetto l’integrazione dei Paesi Membri.
Allo scopo di mettere tutti i cittadini sullo stesso piano di fronte alle istituzioni, alla legislazione che producono e alle opportunità che creano, i Padri fondatori avevano deciso che tutte le lingue dei Paesi membri erano lingue ufficiali e lingue di lavoro.
All’inizio, con i sei Paesi della Comunità Europea, le lingue erano quattro: Italiano, Francese, Tedesco e Olandese.
Anche se il Francese era la lingua più usata, le altre lingue restavano d’uso corrente.
Tutti documenti, tutti gli strumenti di lavoro, le informazioni e le comunicazioni di ogni tipo erano rigorosamente nelle quattro lingue e, soprattutto, la comunicazione con i Paesi membri, che fosse a livello delle autorità o dei semplici cittadini, era sempre nella lingua nazionale.
Tutta la struttura interna alle istituzioni era predisposta per riempire questo ruolo mediante Servizi composti di nazionalità armoniosamente e sapientemente diversificate.
Con le successive adesioni del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, poi della Grecia, in seguito della Spagna e del Portogallo ed infine dell’Austria, della Finlandia e della Svezia, siamo arrivati a quindici Paesi e undici lingue.
Il funzionamento linguistico, che sempre è stato considerato una delle colonne portanti della costruzione europea, nella misura in cui essa entra nella vita quotidiana del cittadino e lo concerne direttamente, ha continuato ad essere corretto fino a pochi anni fa.
Al fine di fondare la nuova Europa sui principi democratici, sulla riconoscenza reciproca, l’uguaglianza e la fraternità, i Servizi linguistici delle istituzioni europee, che sono già stati un modello unico, di rara efficienza, avrebbero dovuto essere oggetto di grande attenzione e divenire centri di eccellenza al servizio dei cittadini che costituiscono il popolo sovrano, fondamento di tutte le democrazie.
Al contrario, approfittando, da una parte, dell’appoggio di certi Paesi nordici e di una concezione gretta della pubblica amministrazione, dall’altra, della prospettiva dell’ampliamento verso i Paesi dell’Est, l’inglese ha cominciato a voler giocare il ruolo della lingua unica, mettendo in atto una vera strategia nel costituire e congegnare i Servizi, nell’adottare strumenti di lavoro ad hoc, nel denaturare i servizi linguistici, nel costruire le relazioni e i negoziati con i Paesi candidati, in un’ottica che deroga al principio d’interesse generale. In particolare, sono stati messi in piedi servizi monolingui, intolleranti di qualsiasi altra forma d’espressione, creando centri di potere che tendono a gestire in maniera esclusiva settori importanti all’interno delle strutture comunitarie.
In seno alle istituzioni stesse è stato creato un marchingegno, ispirato ai criteri dell’impresa privata e funzionante in completa contraddizione con la lettera e con lo spirito dei Trattati, che tutto spazza davanti a sé.
2. Le nuove tendenze e il caso dell’Italiano.
Di recente, la Commissione Europea ha deciso di ridurre a tre le lingue di procedura: Francese, Tedesco e Inglese che, poi, sono diventate, de facto, quelle che sono considerate le lingue di lavoro dell’ istituzione, nella più totale opacità.
Non si capisce, infatti, perché mai l’Italiano che, allo stesso titolo di queste tre lingue, è la lingua di uno dei quattro “Grandi” non abbia conservato, anch’esso, la sua qualità di lingua procedurale e sia, al contrario, quasi scomparso dall’uso corrente, non solo nel lavoro quotidiano ma anche in tutte le forme di documentazione, nei formulari da riempire, nei progetti da presentare e nella comunicazione con i cittadini e le autorità.
Tutto ciò comporta conseguenze catastrofiche per un’effettiva e concreta partecipazione italiana al processo di integrazione in corso nonché ai programmi e alle azioni delle quali i cittadini, le istituzioni, le imprese italiane devono poter essere protagonisti, insieme agli altri e su un piano di stretta e rigorosa parità.
Questa situazione è molto inquietante perché, ovviamente, nell’ambito delle nuove adesioni bisognerà trovare un modus vivendi, fermo restando il fatto che sarà sempre indispensabile assicurare le legislazioni in tutte le lingue.
In questa prospettiva, se si devono scegliere alcune lingue di lavoro e di procedura e se l’Italia vuole mantenere il suo livello di Grande Paese, è di fondamentale importanza che l’Italiano non venga messo da parte.
L’Italia non è un piccolo Paese, in nessun senso.
L’Italia è, inoltre, uno degli Stati Membri fondatori della Comunità Europea e, in tal senso, depositario e garante del progetto iniziale, la cui originalità rimane, a tutto oggi, l’anima unica, grandiosa e impareggiabile del modello europeo.
L’Italia è un Paese che ha un peso determinante, in seno all’Unione Europea, non solo in termini demografici, economici, politici e culturali ma anche per la sua dinamicità, creatività, apertura e, non ultimo, per il suo contributo umanistico e spirituale nella storia d’Europa.
Basta dare un’occhiata alla faccia nazionale delle euro-monete per comprendere quale è il posto dell’Italia nel contesto europeo.
3. La deriva del modello originario.
Le recenti decisioni della Commissione Europea di ridurre a tre lingue di procedura, in flagrante contraddizione con la lettera e lo spirito dei Trattati costitutivi, da quello di Roma, del 1957 a quello di Nizza, del 2000, non ha fatto che aggravare la situazione.
Esse, infatti, incoraggiano l’invadenza e l’aggressività dell’inglese, nei confronti delle altre lingue, e facilitano il compito di colonizzare l’Europa, eliminando l’Italiano e lo Spagnolo, lingue di grande vitalità e diffusione che hanno entrambe la caratteristica essere “plebiscitate” dal cittadino europeo e che vengono imparate e parlate per diletto e compassione, non per obbligo.
La situazione al Segretario del Consiglio dei Ministri non è migliore; si salva ancora, ma solo in parte, il Parlamento Europeo, un po’ più attento alle esigenze della democrazia.
Nell’insieme, le istituzioni europee, ispirate da consulenti, sprovvisti di qualsiasi elementare cultura relativa alla nozione di interesse generale e di pubblico servizio, invocano ragioni di bilancio per smantellare i Servizi, prioritariamente quelli linguistici, che sono l’espressione della democrazia delle istituzioni e della volontà di far partecipare tutti i cittadini europei al processo di integrazione in corso.
Orde di consulenti d’oltre oceano si attaccano al cuore d’Europa, squisitamente cartesiano, smantellando strutture interne delle istituzioni con riforme che degradano l’efficienza, la responsabilità e l’indipendenza della pubblica amministrazione, a livello europeo, la quale costituisce al tempo stesso lo strumento inscindibile dallo stato di diritto e il veicolo indispensabile per la messa in opera della democrazia.
Forze centrifughe si sono impadronite delle strutture che l’Europa si è data per realizzare il suo progetto di unione e le usano per raggiungere obiettivi che sono in contrasto con l’integrazione europea.
4. L’Europa dell’esclusione.
L’uso dell’inglese, come lingua unica, che induce il pensiero unico, ha, come conseguenza diretta, l’esclusione, generalizzata, della massa dei cittadini europei di lingua e cultura latina dalla partecipazione effettiva alla costruzione europea, alla vita pratica in seno alla stessa, a tutte le opportunità che le istituzioni creano. In questo contesto va ricordato che i popoli latini costituiscono più della metà dell’Unione, che, quasi, l’altra metà è costituita da popolazioni germaniche e che gli anglofoni rappresentano solo il 5,5 % dell’insieme.
La stessa cooperazione con i Paesi terzi è stata, a poco a poco, svuotata della sua motivazione profonda che l’approccio umanistico, di stampo latino, le aveva assegnato.
Concepita, all’origine, come relazione privilegiata con i Paesi in via di sviluppo e con quelli a reddito medio-basso, sulla base di un trasferimento di conoscenza e di modi di fare, prevedeva anche un trasferimento di valori, sul modello europeo, e una stretta collaborazione umana che assicurava lo stabilirsi di relazioni professionali e di lavoro che andavano aldilà dei singoli progetti, è stata sbaragliata, poco alla volta, con una marcata tendenza alla privatizzazione e alla decentralizzazione e con modi di fare che non calzavano all’insieme dell’Europa.
Le forme di cooperazione attuale consistono, essenzialmente, nella messa a disposizione di fondi, sono schematiche, senz’anima e sono spesso realizzate non già da istituti, imprese consulenti e cittadini europei, che siano in grado di assicurare le ricadute positive per l’Europa e lo stabilirsi di rapporti fruttuosi, ma da agenzie delle Nazioni Unite, consulenti, istituti e fondazioni d’oltre oceano.
Ma la cooperazione non si fa con i soldi, che ne sono solo il supporto materiale, si fa con gli uomini e con le donne che vanno sul posto e condividono quotidianamente le responsabilità legate alla realizzazione dei progetti con le persone del luogo, trasferendo conoscenza e modi di fare e tessendo legami duraturi.
Le risorse del contribuente europeo non sono più consacrate alla costruzione di una certa immagine dell’Europa e a tessere vincoli di solidarietà con i paesi più poveri, sono soggetto di business e servono a rimpolpare consulenti, istituti, fondazioni e imprese che non sono neanche europei. La qual cosa, a mio parere, priva l’utilizzo dei fondi di ogni legittimità.
Ma i danni non si limitano a questo, essi invadono tutti i settori del processo di integrazione.
Come giustificare, ad esempio, la forma presa dai negoziati di adesione con i Paesi dell’Est ai quali è stato imposto l’inglese a un punto tale che, nonostante la preferenza di molti di loro per il Francese o per il Tedesco, che conoscono meglio, tutti i documenti, inclusi gli accordi, sono stati presentati solo in inglese?
Con questo tipo di operazione, il dispositivo istituzionale dell’Europa unita, di tutti i Trattati, da Roma a Nizza, viene infranto.
La qual cosa causa al cittadino un danno ancor più grave che quello dei soldi mal spesi.
Purtroppo, questo genere di disfunzione non colpisce mai, abbastanza, l’attenzione del cittadino, perché si tratta di un danno che non ha nessuna visibilità immediata per i non addetti ai lavori, che sono, in effetti, la grande maggioranza, i quali perdono, senza saperlo, dei diritti e delle opportunità e assistono, a loro insaputa, alla corrosione della democrazia.
A mo’ delle dittature più bieche, che giustificano, presso i cittadini, l’assenza di elezioni democratiche con la mancanza di fondi nelle casse dello Stato, le istituzioni europee diventano grette per le spese di Traduzione e d’Interpretariato e smantellano subdolamente i Servizi linguistici, senza tenere conto del fatto che la democrazia ha un prezzo che le istituzioni democratiche sono tenute a pagare.
La Pubblica Amministrazione non può agire secondo i criteri dell’impresa privata perché i suoi obiettivi sono altri e non mirano al profitto ma ad assicurare che l’esercizio della democrazia, l’interesse generale, la solidarietà sociale, la giustizia e l’equità abbiano sempre priorità, su tutto.
5. Una nuova forma di colonialismo.
Dietro queste manovre si nascondono obiettivi di natura economica immediati ma esse mirano anche a una forma ancora più grave e nefasta di colonizzazione dell’Europa sul piano commerciale, militare e strategico.
Le pressioni esercitate in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio per liberalizzare tutti i settori, inclusa l’Educazione nazionale, la Salute pubblica e via dicendo, non fanno presagire niente di buono.
Mutatis mutandis, questa storia mi fa pensare alle persecuzioni contro gli ebrei.
All’inizio sembravano cose banali e, in fin dei conti, secondo i benpensanti dell’epoca, accettabili. La massa dei cittadini non ha osato levare la voce per tempo.
Coloro che erano ingiustamente perseguitati si sono piegati a portare la stella, a vedere sminuiti i loro diritti civili, poi alla deportazione e, infine, ai lavori forzati, ai maltrattamenti, perché nessuno, mai, avrebbe potuto immaginare che in fondo al tunnel c’erano le camere a gas.
Non ci sono state rivolte, poche fughe, tutto si è compiuto all’insaputa dei più e contro la buona fede, ispirata al conformismo della stragrande maggioranza di coloro che avrebbero dovuto reagire subito.
Ci troviamo, attualmente, nella stessa identica situazione anche se i termini del problema si pongono in modo diverso.
Nessuno si preoccupa, veramente, dei degradi che patisce la nostra lingua nel suo diritto di esistere, a pieno titolo, in seno all’Europa, perché le decisioni che sono prese e il loro funzionamento sono tecnici e non trasparenti.
Pochi sono a conoscenza dei termini del problema e pochissimi quelli che hanno la lucidità di comprenderne le conseguenze nefaste.
L’Italia è, oggi, come le vergini stolte della parabola perché non sa vegliare e perde di vista i suoi interessi fondamentali e quelli dei cittadini italiani, a medio e a lungo termine.
Altri Paesi europei sono sulle stesse posizioni perché banalizzano la questione linguistica, la trattano con superficialità, non tengono conto della sua dimensione democratica, culturale e identitaria, strettamente legata alla creatività.
Non hanno ancora compreso cosa si profila in fondo al tunnel: una Europa duale costituita di cittadini di prima e di seconda categoria, quelli di madre-lingua inglese e gli altri, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Questo articolo è stato scritto a titolo personale, le opinioni che vi sono espresse sono quelle dell’autore e sono da attribuire esclusivamente a me stessa.
Anna Maria Campogrande
Fonte: CIVILTÀ EUROPEA IDEE, ANALISI E PROPOSTE ANNO II quaderno 1 pagg.79-83