Anna Maria Campogrande
1.Il progetto europeo.

L’Europa, da più di cinquant’anni, persegue un progetto di integrazione che dovrebbe portare, a medio termine, i Paesi europei a costituirsi come un unico attore politico, economico, culturale, di dimensioni continentali.

Un’analisi critica della storia dell’Europa degli ultimi tre millenni mette in evidenza i punti forti e i punti deboli di questo progetto, vale a dire la colla che può tenere uniti i Paesi europei e le diversità che possono farlo fallire, se non prese in conto opportunamente.

2. Fattori di coesione.

Uno dei fattori di coesione tuttora presente, ancorato nella coscienza collettiva di una grande parte dei Paesi europei, è costituito dall’eredità della civiltà greco-latina, la filosofia dell’antica grecia, il diritto romano che sottendono ancora il pensiero di tutte le democrazie occidentali moderne.

Altro elemento di coesione, da non sottovalutare, che in tempi non lontani è stato all’origine di conflitti cruenti, tra i popoli d’Europa, è il Cristianesimo il quale, di recente, ha iniziato, al suo interno, un processo di riconciliazione non ancora portato del tutto a compimento.

Questo percorso di riconciliazione, tra Cristiani, è di una grande importanza perché mette in evidenza, nel positivo e nel negativo, il ruolo delle religioni in quanto fattore di coesione sociale, che non è scontato, anche quando esse discendono dallo stesso capostipite.

Per quanto concerne il Cristianesimo, le parti interessate, vale a dire le popolazioni europee, nel corso dei duemila anni di convivenza, nell’era cristiana, hanno imparato a conoscersi, ad apprezzarsi, nel bene e nel male, e possono trovare nel riconoscimento di valori comuni un fattore di successo del progetto di unificazione europea.

Uno dei molteplici fattori che non è una garanzia, tenuto conto del fatto che, in materia di religione, la convivenza pacifica non si può ottenere con la bacchetta magica, via decisioni prese dall’alto, ma implica la necessità di aggiustamenti e, anzitutto, l’adozione di posizioni reciprocamente tolleranti, tra le parti coinvolte.

3. Ruolo della cultura.

In definitiva, l’elemento chiave di coesione profonda, tra popoli che vogliono vivere e crescere insieme non può essere nient’altro che la cultura. Non già una cultura di facciata, appiccicaticcia, dell’ultim’ora ma l’elaborazione e la sintesi di un passato intelligentemente e consapevolmente condiviso.

In tal senso, quello che può assicurare la riuscita del progetto di integrazione europea sono le tradizioni delle quali tutti gli Europei si sentono eredi, le radici comuni che affondano nell’humus delle civiltà dalle quali proveniamo e nelle quali una grande parte e, qualvolta, tutti gli Europei si riconoscono.

Oltre all’eredità del mondo greco-latino, già citato,c’è l’eredità del Sacro Romano Impero, lo splendore del Rinascimento, lo

spessore culturale della Mittle-Europa, la sua funzionalità, i valori civici della Rivoluzione francese, il pensiero filisofico che ha sotteso tutti questi momenti della storia europea, il modello sociale, di impronta umanistica, che fa dell’Europa, nell’attuale momento storico, una delle regioni più civilizzate del mondo.

Un modello sociale che non è un fatto casuale ma una priorità collettiva, radicata nella coscienza popolare europea perché risultato del cammino percorso.

4. Un cittadino per l’Europa.

Dopo aver realizzato le frontiere esterne, il mercato interno, messo in opera la politica commerciale, la politica agricola, la politica regionale, il patto di stabilità, la moneta unica e altro ancora, l’integrazione europea non progredirà ulteriormente, resterà un fatto economico e commerciale, niente di più di un grande mercato, se non si affronteranno le questioni vitali che costituiscono la colla del vivere e del divenire insieme.

La questione linguistica e culturale, quella dell’istruzione dei giovani devono essere affrontate e risolte con uno spirito comunitario, che prescinda dalla strategia di dominio anglo-americana, e nell’ottica di disegnare il profilo linguistico e culturale del cittadino europeo.

Un’ Europa unita senza un autentico cittadino europeo, che non sia la semplice giustapposizione delle nazionalità esistenti, è una pura utopia. L’Europa ha la necessità urgente di una di una vera e propria politica linguistica e culturale, slegata dalla propaganda imperialistica della lingua unica e dalle deviazioni della globalizzazione, rispettosa delle realtà europee.

5. La pubblica istruzione.

L’Europa ha bisogno di una pubblica istruzione che, pur rispettando le specificità di livello nazionale, sia oggetto di concertazione e di accordi, a livello europeo, per ciò che riguarda lo studio delle lingue, della filosofia e delle civiltà dalle quali discendiamo.

La pubblica istruzione non deve servire a preparare e a mettere sul mercato un “prodotto pronto”, per soddisfare i bisogni delle multinazionali, come sembra credere il nostro Ministro della pubblica istruzione, che ha reso obbligatorio lo studio dell’inglese per i bambini italiani, a partire dalla prima elementare.

La scuola è fatta per formare, per insegnare ai giovani a ragionare con la propria testa, ad affrontare la vita, ad assumere responsabilità, sul piano umano e professionale, ad essere dei buoni cittadini e saper fare, al momento opportuno, le scelte giuste nell'interesse generale.

Il fatto che in Italia si vuol far studiare l'inglese ai bambini della prima elementare è una cosa sconvolgente, una vera catastrofe nazionale. Ai bambini italiani, a tutti i bambini europei, bisogna far studiare il Latino e il Greco che sono lingue formative, che struturano il pensiero, non una lingua “usa e getta” che veicola essenzialmente i valori del capitalismo, del mercantilismo, del profitto e del colonialismo economico e culturale.

L'inglese, in cosí giovane età, può rovinare, per sempre, la "forma mentis" dei bambini italiani, l'approccio logico e rigoroso che ci viene dal latino e sconvolgere, il modello culturale italiano che ci ha reso celebri in tutto il mondo e fa parte del nostro patrimonio comune.

6. Il mondo del lavoro dei giovani europei.

Questo servilismo, nei confronti del potere economico dominante, non solo, è deleterio per la formazione dei giovani e per la sopravvivenza della nostra civiltà ma non è neanche un investimento saggio per l’avvenire dei giovani, per il loro inserimento nel mondo del lavoro.

Anzitutto perché si prescinde dal fatto che il nostro mondo più vicino, destinato ad entrare sempre di più nel nostro quotidiano,

è l'Europa, in seno alla quale, ci sono lingue molto più importanti e, soprattutto, più formative dell'Inglese come, ad esempio, il Francese e il Tedesco.

In secondo luogo perché non c'è nessuna garanzia che gli Stati Uniti avranno, tra venti anni, lo stesso peso che hanno oggi a livello mondiale. Se continuano sul cammino intrapreso, gli Stati Uniti potrebbero anche non esistere più nella loro forma attuale in un futuro più o meno prossimo.

La storia ci insegna che tutto ha un fine e che le varie forme di regimi antidemocratici non hanno lunga vita. E' crollato il muro di Berlino, l'URSS non esiste più, il nazismo, per fortuna, lo vediamo solo al cinema, non vedo perché l'imperialismo americano dovrebbe essere eterno.

I giovani devono pensare a un inserimento adeguato nel mercato del lavoro europeo, nell'Europa comunitaria che è il loro futuro. I giovani Italiani che vorranno muoversi in Europa, andare a esercitare la loro professione a Berlino, a Parigi, a Monaco, a Barcellona o a Bruxelles, come faranno a cogliere le opportunità offerte dal mercato se conosceranno bene solo l’inglese? Come potranno inserirsi nel Paese europeo che sceglieranno?

Il fatto di non conoscere le lingue dei Paesi vicini può precludere loro molte occasioni.

La pubblica istruzione non può avere nei confronti dell’inglese la subordinazione che veniva imposta, in altri tempi, alle colonie.

Ma, soprattutto, non può operare scelte che competono all’individuo, al cittadino, secondo inclinazioni e affinità personali.

Un tale comportamento è contrario all'interesse generale dell'Italia, degli Italiani e dell'Europa ed equivale a riconoscere all’inglese delle qualità formative e una supremazia sulle altre lingue che non ha nessun riscontro nella realtà. Questa supremazia esiste, in seno alle lingue europee, ma appartiene, in esclusiva, al greco e al latino.

7. Lingue ufficiali, lingue di lavoro.

I Padri fondatori avevano compreso l’importanza della lingua nell’ambito del processo di integrazione europea, le cui istituzioni hanno una missione e delle prerogative che non possono, in alcun caso, assimilarsi a quelle di una qualsiasi organizazione internazionale.

Per questa ragione, avevano deciso che tutte le lingue della Comunità Europea fossero lingue ufficiali e lingue di lavoro delle istituzioni europee e avevano fatto del sistema linguistico una delle priorità del funzionamento istituzionale.

Per adempiere questa missione le istituzioni europee si erano dotate di servizi linguistici di alto livello che, prima di assumerli in forma stabile, si preoccupavano di formare i funzionari-linguisti alla specificità e alla tecnicità delle materie trattate e miravano a un continuo miglioramento e specializzazione professionale.

Tutti i servizi operativi e tecnici delle istituzioni erano formati da unità composte da funzionari di nazionalità rigorosamente e sapientemente diversificate. Le unità erano organizzate, in modo tale da poter utilizzare quotidianamente, e secondo le necessità, tutte le lingue ufficiali. I funzionari venivano incoraggiati ad apprendere le lingue ufficiali, mediante l’organizzazione di corsi speciali, soggiorni negli Stati Membri e altre facilità.

8. L’effetto delle successive adesioni.

Tutto è andato bene fino a quando, sotto la spinta della globalizzazione, da un lato, e delle priorità di certi Paesi nordici, dall’altro, l’inglese ha cominciato a pretendere al ruolo di lingua unica.

L’adesione di questi Paesi, realizzata in maniera affrettata e sprovvista dell’ oculatezza necessaria per la salvaguardia dell modello originale, è stata una manna per i Paesi anglofoni e per i fautori della lingua unica ma ha costituito una vera catastrofe in vista del consolidamento di un’identità europea rispettosa e responsabile della diversità linguistica e culturale che le è propria.



Si tratta, infatti, di piccoli Paesi che, in mancanza di un mercato interno adeguato per permettere la produzione, in lingua nazionale, a fini nazionali, di tutte le espressioni della cultura, dal cinema all’editoria, dalla musica ai programmi televisivi e via dicendo, sono stati inglobati, da decenni ormai, nell’area della cultura anglo-americana che è diventata una loro seconda natura.



Arrivati in Europa, su un piano di parità, non sempre compatibile con le dimensioni del Paese e con le regole della democrazia, pretendono di imporre questa loro scelta, che considerano obbligata, ai grandi Paesi europei quali l’Italia, la Francia, la Germania, la Spagna, con una ostinazione senza remore e una incredibile mancanza di rispetto nei confronti di milioni di cittadini europei che la loro scelta discrimina.



Lo spirito contabile e mercantilistico che li distingue e li accumuna agli Anglo-americani non permette loro di vedere i limiti e i rischi di questa scelta e del progetto che la ispira.



9. La strategia della lingua unica.



In questo contesto, e grazie a un’orchestrazione molto abilmente messa a punto, all’interno dell’ Amministrazione Pubblica Europea come all’esterno, facendo leva sulla diplomazia, sulle Rappresentanze Permanenti, sui politici e sugli organi di governo degli Stati Membri, mediante lo sbandieramento di criteri di carattere economico e di bilancio, le istituzioni europee sono state prese d’assalto dalla strategia della lingua unica.



Per il momento, in seno alla Commissione Europea, c’è in atto un sistema a tre lingue che si vorrebbe far adottare ufficialmente e che mira, a termine, all’adozione di una sola lingua. Questo sistema porta a uno stravolgimento del progetto europeo perché solo i Paesi che riusciranno a conservare la presenza attiva della propria lingua riusciranno a impregnare l’Europa della loro presenza e della loro identità.



Se è vero che lavorare costantemente in venti lingue può creare difficoltà è comunque necessario trovare un “modus vivendi”, un sistema, che può essere a geometria variabile, fondato su criteri democratici e su parametri obiettivi che tenga conto della diversità linguistica e culturale dell’Europa e miri a conservarla e protegerla.



L’adozione della lingua unica o di due, tre lingue, farebbe si, come d’altra parte già spesso accade, che gli altri Paesi, l’Italia in primis, invece di mandare, alle riunioni, il tecnico specializzato sull’argomento all’ordine del giorno, mandano il funzionario più o meno factotum che parla l’inglese con tutte le consequenze che questo comporta.



Il processo di integrazione europea è un affar serio, un processo che in pochi anni può cambiare, a loro svantaggio, i connotati dei Paesi poco attenti. Per questo, richiede preparazione, attenzione, presenza, quotidiane e costanti, e la doverosa determinazione, per coloro che ci rappresentano di salvaguardare le nostre tradizioni e la nostra identità non già in un semplice e meschino interesse nazionalistico ma per metterle a disposizione della qualità della vita di tutti gli Europei.



10. La nascita delle lingue di procedura.



Il risultato più evidente della strategia della lingua unica è stato che la Commissione, al suo interno, è stata investita di una proposta emanante dal Presidente in carica, di adottare l’inglese come unica lingua di lavoro.



In seguito alle proteste congiunte di Francia e Germania, la Commissione ha ripiegato su tre lingue di lavoro, francese, tedesco, inglese, senza giustificare, istituzionalmente, questa scelta e enunciarne i criteri di discriminazione.

on potendo, tuttavia, dirlo chiaramente in questi termini per non essere in palese contraddizione con i testi fondatori, le ha chiamate “lingue di procedura”. Vale a dire lingue usate per adottare un testo del Collegio via la “procedura scritta” che è una delle prassi interne alla Commissione.

1. Riunioni tecniche senza l’interpretazione.


Il Consiglio di Ministri ha fatto anche di peggio autorizzandosi a tenere molte riunioni, in particolare quelle di livello tecnico che sono le più delicate, in due sole lingue, inglese e francese, spesso anche senza l’ interpretazione, da e verso queste due lingue, obbligando i presenti a una conoscenza approfondita di entrambe le lingue, salvo fare solo atto di presenza.

on è facile spiegare ai non addetti ai lavori i danni irreparabili che tali decisioni comportano per la difesa e la presa in conto degli interessi nazionali e per la partecipazione effettiva di tutti gli Stati Membri al processo di integrazione in corso.

e decine di riunioni, di carattere tecnico, che si tengono ogni giorno, in seno alle istituzioni, non permettono una partecipazione efficace degli esperti degli Stati Membri se non prevedono la possibilità di esprimersi nella propria lingua e di disporre dell’interpretazione verso la propria lingua alfine di comprendere, nei dettagli, la materia trattata e la posta in gioco.


E’ necessario insistere su questo punto: questo tipo di riunioni che, ripeto, si tengono a decine ogni giorno a Bruxelles, a Lussemburgo, a Strasburgo e un po’ ovunque, trattano di agricoltura, commercio, coperazione, finanze, trasporti, energia e altro, non si tratta di discussioni di carattere generale ma di concertazioni di carattere altamente tecnico e specializzato che producono decisioni con un impatto diretto sui vari settori dell’economia degli Stati Membri.

na mancanza di presenza attiva, una distrazione, possono costare carissime a un intero Paese e soprattutto a tutti i cittadini europei.

’ cosi che, per una distrazione, i Belgi, gli Olandesi e i poveracci di Italiani, Greci e Spagnoli che vivono in questi Paesi si ritrovano a dover mangiare pomodori, peperoni, melanzane, zucchine e altre verdure, coltivate con l’idrocultura nelle serre dell’Olanda e del Belgio. Le verdure che sono i frutti del sole del Mediterraneo che il sole non lo hanno mai visto e del prodotto originale hanno conservato solo il nome.



E’ cosi che l’industria dei forni di un Paese, che non voglio nominare, è quasi riuscita a far eliminare, in Italia, i forni a legna, per cuocere la pizza che da uno studio di “esperti indipendenti” venivano considerati poco igienici.


E’ cosi che ci ritroviamo a mangiare la cioccolata fatta con tutt’altro che con il cioccolato.

’ cosí che i nostri programmi di istruzione e di studio vengono deviati verso forme non congeniali al nostro profilo storico-culturale.


E’ cosi che l’italiano, la nostra bellissima lingua, sta scomparendo poco a poco dal quotidiano delle istituzioni europee e dall’Europa.


12. Europa alla deriva.


La realtà è che, in queste condizioni, l’Europa è alla deriva, prigioniera di un manipolo di attivisti che ne deturpano le sembianze e ne forgiano un futuro controverso e nefasto perché non rispettoso delle sue diversità.

li Europei sono stati derubati del loro progetto di integrazione.

’integrazione europea sta trasformandosi in uno strumento di potere della globalizzazione delle multinazionali e di oppressione dei popoli, attraverso le scelte tecniche, commerciali, agricole, amministrative che ci vengono dettate dagli Stati Uniti, direttamente e via altri mecanismi quali le organizzazioni internazionali ad hoc, le società americane di consulenza che forniscono, a getto continuo, i famosi “esperti indipendenti” i quali stanno stravolgendo l’apparato amministrativo delle istituzioni europee, attraverso le schedature che, con il pretesto del del terrorismo, sono sempre più diffuse e invadono tutti gli aspetti della vita civile.


L’integrazione europea sta trasformandosi in un baraccone informe le cui competenze diventano sempre più incompatibili con la mancanza di democrazia, con la mancanza di servizi adeguatamente organizzati e strutturati, per assicurare la partecipazione attiva di tutti i cittadini e di di tutte le parti interessate, al concepimento della nuova Europa che si costruisce, giorno dopo giorno. Competenze incompatibili con la mancanza della trasparenza e dell’imparzialità necessarie a questo tipo di progetto che vede in gioco Paesi e interessi di grande disparità.

13. Lingua di comunicazione e lingua di concezione.

enuto conto della natura “sui generis” ,unica al mondo, delle istituzioni europee, esiste molta confusione in fatto di lingue e quanto alla necessità di avere “una” lingua di comunicazione.


In realtà, come già messo in evidenza, non essendo una organizzazione internazionale ma un apparato politico-amministrativo che, sotto molti aspetti, è del tutto paragonabile a quello di uno Stato, la Comunità Europea ha bisogno di lingue di concezione.

li anglofoni e gli anglofili hanno messo in circolazione quest’idea della “lingua franca” , la più pratica, la più facile, quella che ci è comune, c’è addirittura uno slogan che farnetica più degli altri, definendo l’inglese come “il nuovo latino”.


I pretesti che si accampano sono quelli dell’economia, dell’efficenza, della razionalità, della credibilità delle istituzioni, si pretende voler evitare la babelizzazione delle istituzioni europee.


In realtà si tratta di slogans messi in circolazione dalla propaganda anglo-americana per il dominio economico e culturale dell’Europa.

La gente, a cui non va di informarsi e di fare lo forzo di ragionare con la propria testa, ripete tutto ciò a pappagallo, si crea cosí una corrente di luoghi comuni sulla questione linguistica che non ha niente a che fare con le esigenze e con la réaltà delle istituzioni europee.

Al dilà dei problemi di diritti umani e di democrazia, che non voglio neanche menzionare, restando al semplice livello dell’efficienza e della credibilità, la realtà è che l’Europa per costruirsi e per crescere, per conservare la sua identità, per rimanere un punto di riferimento della civiltà occidentale e la Patria comune di tutti gli Europei non ha bisogno di “una” lingua di comunicazione ma, anzitutto, di molteplici lingue di concezione e di comunione.

L’Europa non può essere “pensata” in una sola lingua perché l’unilinguismo non le permetterebbe di conservare la sua identità.

La sfida alla quale siamo confrontati non è quella di scegliere una lingua di comunicazione per l’Europa ma quella di trovare un sistema per far coesistere e convivere armoniosamente la sua ricchezza e la sua diversità linguistica e culturale.