Andrea Chiti-Batelli L'articolo di Peter Schneider, Io, tedesco, scelgo l'inglese: fa bene all'Europa, apparso nel «Corriere della Sera» del 6 maggio 2001 fa pensare che l'autore non abbia riflettuto a sufficienza sull'argomento da lui trattato.

Che il mondo abbia bisogno di una lingua franca unica; che questa sia sempre stata imposta dalla potenza politicamente egemone; che quindi sul momento non ci sia alternativa all'inglese, questo non è una novità. Lo sapevamo. Il solo punto su cui bisogna prendere posizione è se si deve accettare a cuor leggero - ricordando che le stesse cause producono gli stessi effetti - che, come il latino ha distrutto in radice le lingue autoctone della parte d'Europa su cui ha potuto estendersi il dominio dell'Impero romano, così debba accader anche oggi, in Europa e nel mondo, a beneficio dell'inglese (lo Schneider deve probabilmente ad Arminio, e alla bellicosità dei suoi antenati, se lui e i suoi possono ancora - ma non per molto - parlare tedesco; egli poi sembra condividere la sensazione propria del tedesco medio che «sente» l'inglese come una sorta di tedesco semplificato e quindi relativamente facile, il che attenua o addirittura cancella la percezione del pericolo futuro).

Questo dunque è il solo punto su cui ci si deve pronunciare: si deve accettare passivamente l'ecocatastrofe che ci minaccia, non solo linguistica, ma anche culturale (perché una cultura non sopravvive, se muore la lingua che la esprime)? La minaccia è certa, e cresce il numero dei linguisti e sociolinguisti che mettono in guardia contro il suo subdolo progredire (subdolo perché graduale, e perciò inavvertito ai più). Ricordiamo solo, per brevità, quello che è forse il massimo linguista francese vivente, Claude Hagège, che nel suo libro L'enfant aux deux langues (Parigi, Odile Jacob, 1996) prevede anch'egli, entro un secolo, la fine di tutte le lingue europee, se tutto resterà come oggi. Si può poi, a ragion veduta, accettarla quella minaccia, quella certezza, ed assuefarsi all'idea che il mondo, fra cento anni, e in particolare l'Europa, saranno caratterizzati da una squallida anglolalia universale. Ma se non si sospetta neppure questo rischio - e quindi non si prende posizione - vuol dire che non si è neppur intravisto qual è il problema.

C'è da aggiungere che l'esempio del latino prova anche un'altra cosa: quando esso non è stato più lingua di un impero - e soprattutto non è stato più lingua materna per nessuno - il suo effetto glottofagico è cessato, ed esso ha potuto esser per secoli lingua franca esclusiva della cultura, senza per questo impedire lo sviluppo dei volgari e delle altre lingue del vecchio continente. Dunque una lingua inventata non materna per nessuno (oggi solo l'Esperanto è pronto per l'uso) potrebbe al tempo stesso costituir la lingua franca dell'Europa e del mondo, senza minacciar l'identità culturale e linguistica dei vari popoli. C'è dunque, in astratto, un'alternativa all'inglese. Tale alternativa è per ora, dicevo, puramente astratta, perché dietro l'Esperanto non c'è nessun potere politico. Ma se l'Unione Europea divenisse un vero Stato federale, e quindi una grande potenza, essa avrebbe un interesse ad adottare una lingua federale ufficiale neutra, che metta tutti i suoi popoli su un piede di parità, combattendo così, al tempo stesso, l'egemonia dell'inglese, che non è solo linguistico-culturale, perché non può non avere, e specie a medio-lungo termine, ripercussioni anche politiche.

Diceva Alberto Mochi, medico e autore di una Filosofia della medicina (Siena, Tieci, 1948) che una pestilenza si estingue in due modi: uno, naturale, con la morte di tutti i soggetti che non resistono al male; una, umana e scientifica, grazie alle vaccinazioni, alle prevenzioni, alle cure ideate dalla scienza medica.

L'esempio calza anche al caso nostro: la via naturale è l'egemonia dell'inglese e l'estinguersi graduale delle altre lingue; la via scientifica, e quindi "artificiale", è l'adozione di una lingua pianificata, neutrale e relativamente facile per tutti, come lingua franca di comunicazione, che consenta la salvaguardia di tutte le lingue nazionali e regionali, compreso l'inglese, che dal suo ruolo internazionale è pure minacciato di seri guasti.

Cordialmente,
Andrea Chiti-Batelli