Robert Phillipson

 

L'internazionalizzazione e la mercificazione dell'istruzione superiore in Europa richiedono sempre più alle università danesi - come quella dove insegno io - di funzionare come imprese, di organizzarsi e porsi sul mercato in modo competitivo. Uno dei sintomi di questa tendenza è l'impiego sempre più frequente dell'inglese. Questo orientamento della comunicazione nel mondo universitario corrisponde ad analoghi sviluppi nei campi commerciale, politico, massmediatico e della "cultura giovanile"; di fatto si tratta dell'impatto di processi incrociati: americanizzazione, globalizzazione ed europeizzazione. La diffusione dell'inglese è al centro di questi processi, influendo così sulle lingue e le identità linguistiche in ambito locale, nazionale ed internazionale. Vorrei esaminare alcune implicazioni di tale stato di fatto, riferendo certi aspetti storici dell'unificazione e dell’americanizzazione dell’Europa, certi paradossi della politica linguistica in Europa che spiegano come non ci sia chiesto se l'espansione dell'inglese costituisca una minaccia per le altre lingue e siano necessarie delle politiche linguistiche più attive a protezione della diversità linguistica.

In teoria l'Ue è fortemente impegnata a mantenere la diversità linguistica e culturale dell’Europa. Questo principio è espresso chiaramente nei trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Ue (2000): “L'Unione s'impegna a rispettare la diversità culturale, religiosa e linguistica” (art.22). In teoria le undici lingue hanno uguali diritti come lingue ufficiali e di lavoro delle istituzioni sopra­nazionali dell'Ue; ma la realtà è più complessa, per ragioni che saranno esposte brevemente. La gestione del multilinguismo è molto complessa e il recente allargamento dell'Ue - con l'arrivo di nuovi stati e dunque di nuove lingue - rende le cose ancor più complicate. Così come il processo d'integrazione politica cancella i confini tra sovranità nazionale e politiche comuni sopranazionali, allo stesso modo le lingue non rispettano le frontiere nazionali. Il loro uso a livello sopranazionale ri­flette una gerarchia a livello sia nazionale che internazionale.

Una delle spinte maggiori ad associare le economie degli stati europei è stata la volontà di creare delle forme di interdipendenza che rendessero impossibili delle aggressioni militari. Ciò si poteva ottenere regolando le controversie territoriali tra Francia e Germania ed assicurando che il processo di reindustrializzazione dopo la seconda guerra mondiale risolvesse i bisogni e i sospetti reciproci di questi paesi e di quelli che erano stati occupati dai nazisti. Erano essenziali per questo degli investimenti extraeuropei che non potevano arrivare che da una sola fonte cioè gli Stati Uniti. Il Piano Marshall è stato parte di una strategia mirante a porre

* Ricercatore del Dipartimento di Inglese della Copenhagen Business School.

l'America come forza preminente su scala mondiale attraverso gli Accordi di Bretton Woods per il commercio, la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Inter­nazionale, l'ONU e la NATO. Una economia sana nell’Europa occidentale veniva considerata un baluardo contro il blocco comunista.

Gli obiettivi nordamericani sono sempre stati espliciti e lineari dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1948 George Kennan - grande “imperial planner “ del Dipartimento di Stato - scriveva:

''''Noi abbiamo il 50% della ricchezza del mondo ma solo il 6,3% della sua po­polazione. In tale situazione dobbiamo impegnarci in modo particolare a mettere a punto per il futuro uno schema di relazioni internazionali che ci permetta di conservare questa posizione di disparità. Per fare ciò dobbiamo mettere da parte ogni sentimentalismo, smettere di pensare ai diritti dell'uomo, all'innalzamento del livello di vita e alla democratizzazione ". Il presidente Bush II s’inquadra perfettamente in quanto espresso chiaramente da Condoleezza Rice (sua consigliera per gli Affari Esteri): “Perseguendo i propri interessi gli S.U. servono anche il resto del mondo nel migliore dei modi poiché i valori americani sono universali”.

La creazione delle prime istituzioni dell'Ue è stata - di conseguenza - il risultato di un insieme di motivi sia degli Americani che degli Europei. Da tutt’e due le sponde dell'Atlantico vi erano negli anni '40 sostenitori degli "Stati Uniti d'Europa"; un'idea che certi pacifisti visionari come Victor Hugo avevano difeso un secolo prima. Ernest Renan -celebre per aver affermato che una nazione è un referendum quotidiano - scriveva nel 1882: "Nessuno Stato o nazione sono eterne: presto o tardi tutto sarà soppiantato da qualcos’altro, forse una confederazione europea. "1 Gli Stati Uniti insistettero, come condizione per il Piano Marschall, che le economie delle Stati europei venissero coordinate ed integrate. La pressione americana fu dunque decisiva per la forma di collaborazione europea costituita alla fine degli anni 40: la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (1952) e la Comunità Economica Europea (1957). Il primo abbozzo di Comunità Politica Europea - con un Consiglio Esecutivo, una Corte di Giustizia ed un Parlamento – fu creato nel 1953.

Fu allora che si stabilì il principio di parità linguistica fra gli Stati partecipanti, dapprima 4 ed oggi 11. Il relativo peso del francese negli affari della Ue è dovuto al suo ampio impiego nel passato nelle relazioni internazionali, alla collocazione delle istituzioni dell'Ue nelle città in cui veniva largamente usato (Bruxelles, Lussemburgo, Strasburgo) e al fatto che i francesi , con i tedeschi, occupavano un ruolo di primo piano nella costruzione della nuova Europa.

Gli inglesi avevano esitato ad aderire all’Ue per i legami che conservavano con il loro impero e per la convinzione di avere un rapporto speciale con gli Stati Uniti. Charles De Gaulle bloccò l’entrata del Regno Unito negli anni '60, perché lo considerava come un cavallo di Troia degl'interessi americani. Quando il presidente Georges Pompidou diede il suo consenso a questa adesione nel 1972, la condizione su cui si disse avesse insistito fu quella che restasse incontestata la posizione di preminenza nelle istituzioni dell’Ue della lingua francese

Benché - in teoria – vi fosse parità fra le lingue ufficiali della CEE, il francese era primus inter pares. Le preoccupazioni di Pompidou di vedere il francese eclissato dall'in­glese erano ampiamente giustificata perché quest'ultimo si stava piazzando come un cuculo linguistico nei principali nidi dell’Ue.

La promozione della lingua inglese in tutto il mondo è stata fondamentale per la strategia mondiale di Gran Bretagna e Stati Uniti dal 1945. Il British Council ha un ruolo chiave nel mantenere la posizione dell’ inglese negli Stati post-coloniali come nel mondo post-comunista dove si predicava la globalizzazione attraverso la triade dell’Economia di mercato / Diritti umani / Lingua inglese. Come si afferma nella relazione annuale del B.C. per il 1960-61: "Insegnare l’inglese al mondo si può considerare quasi come un’ estensione del compito assunto dagli Stati Uniti d'America quando si trattò d'imporre questo idioma come lingua nazionale comune alla loro popolazione d'immigrati" Le conseguenze della politica linguistica degli USA di fronte alle lingue d'origine degli immigrati e degli Amerindi furono terribili. E' altrettanto importante ricordare che le politiche nazionali applicano anch'esse le strategie globalizzanti statunitensi e che l'inglese è fondamentale per le une come per le altre. Naturalmente ciò è vero anche per il Regno Unito, da molti secoli.

A sentire certi autorevoli americani tutto il mondo potrebbe facilmente fare a meno di tutte le lingue tranne che dell’ inglese. Nel 1997 l'ambasciatore statunitense in Danimarca - funzionario di chiara provenienza imprenditoriale e ciò spiega tutto - fu tanto sconsiderato da affermare in presenza di mia moglie durante un pranzo all'Università di Roskilde: "Il più grave problema dell'Ue è che ha tante lingue , il che ne impedisce una reale integrazione e un vero sviluppo.”

In un rapporto della CIA del 1977 si affermava che i successivi 5 anni sarebbero stati decisivi per imporre l'inglese come unica lingua internazionale. La stessa idea che ci possa essere una sola lingua internazionale è evidentemente un nonsenso. Ci sono letteralmente centinaia di linguas francas intemazionalmente usate, ma molte persone credono al mito dell'uso mondiale dell'inglese; in particolare coloro che traggono profitto da una buona conoscenza di questa lingua, ivi compresi i prof universitari sostenitori della globalizzazione linguistica.

L'opera di George Monbiot “Captive State: The corporate take-over of Britain” [Lo Stato prigioniero: L 'occupazione della Gran Bretagna da parte delle grandi imprese] - Ed. MacMillan, 2002 - illustra le tante vie per le quali il potere economico determina la politica del governo e delle autorità locali in innumerevoli campi tra cui agricoltura, energia, ambiente, urbanistica, sanità, ricerca universitaria e istruzione generale. Il consolidamento nell'Ue del mercato comune e dell'unione monetaria ha realizzato gli auspici del mondo im­prenditoriale coordinato dalla Tavola Rotonda Europea degli Industriali , as­sociazione di presidenti e direttori generali di 46 fra le più grandi società europee (op.cit, 320). Questo gruppo di pressione si è adoperato direttamente per fissare i termini dell'allargamento dell’ Ue ai Paesi dell'Europa centrale ed orientale (ibid., 324). Nelle trattative per l'ammissione tutti i documenti degli Stati candidati devono essere prodotti esclusivamente in inglese.

Il Transatlantic Business Dialogue (Dialogo Transatlantico degli Affari) riunisce imprese americane ed europee ed è simile al G8 e alla rete dei capi di Stato. Si crea sempre più un’unica struttura corporativa di Stati. Si prevede infatti d'instaurare un mercato unico che riunisca Europa e Nord America, un'Associazione Economica Transatlantica concepita per elaborare "una rete mondiale di accordi bilaterali che comportino identiche procedure di conformità" (cit. ibid., 329). G. Monbiot ha riassunto tali sviluppi due anni prima del Summit di Johannesburg e non è cambiato nulla che possa smentire la sua analisi (ibid., 329-330):

"Fra non molto... solo poche nazioni resteranno fuori da un mercato unico mondiale con legislazioni affini a cui tuttavia saranno dopo non molto costrette ad aderire. Se si negozierà un nuovo accordo mondiale sarà del tutto inutile perchè il lavoro dell'WTO (organizzazione mondile del commercio) sarà già stato fatto. In nessuna parte del mondo potranno soprav­vivere delle leggi severe in materia di protezione dell 'ambiente o di diritti umani. Se questi progetti di nuovo ordine mondiale si realizzano, gli eletti dal popolo saranno ridotti allo stato di agenti di un governo globale costruito, coordinato e retto dai dirigenti delle grandi imprese. "

Nonostante questa forte tendenza in cui l'inglese svolge un ruolo essenziale, il prin­cìpio del multilinguismo nell'Unione Europea è stato riaffermato con innumerevoli dichiarazioni. Le decisioni provenienti da Bruxelles, ratificate dai quindici Stati membri (e 70-80% della legislazione nazionale torna ad applicare le decisioni prese a Bruxelles), sono pubblicate nelle undici lingue. Esistono servizi completi d'interpretazione e di traduzione nelle istituzioni della Ue; ciò al fine di garantire che i locutori di ciascuna lingua ufficiale abbiano uguale voce in capitolo. Il ventaglio delle competenze attribuite all'Ue si allarga senza sosta, perfino in campo culturale. In teoria, l'educazione ne è esclusa; ma essa gioca un ruolo crescente nei programmi di lavoro, andando dal finanziamento degli studi e della ricerca alla riforma ed armonizzazione dell'in­segnamento superiore. Questo solleva il problema di quanto la politica linguistica sia di competenza ancora dei singoli Stati o possa essere considerata questione dell’ Unione. Può uno Stato membro fare ciò che vuole purchè rispetti almeno nella forma i diritti linguistici previsti da convenzioni, carte e trattati dell'UE?

Questi problemi - così come la gestione interna del multilinguismo nelle istituzioni dell'UE - sono stati oggetto di pochissime ricerche univeritarie. Una recente tesi di dottorato in Diritto internazionale sostenuta negli Stati Uniti ha concluso che le misure a protezione della lingua francese (la Legge Toubon) sono contrarie al Trattato di Maastricht e ai principi di un Mercato Comune in cui le merci, i servizi, il lavoro e il capitale circolino liberamente. Di conseguenza, c'è il pre­vedibile rischio che gli avvocati aggrediranno presto le leggi linguistiche nazionali, proprio su questa base. Lo studente della tesi ha una soluzione per tutta questa varietà di lingue:

"Vale la pena chiedersi se l'Ue debba rispondere alla domanda di uniformità in materia di lingua degli affari e proteggersi più efficacemente contro un 'eventuale profluvie di legislazione linguistica da parte degli Stati membri. Una delle misure che l'Ue potrebbe prendere è quella di promulgare una lingua comune per il mercato europeo. "

Le ragioni addotte sono naturalmente prevedibili: rapidità di accesso all'informa­zione, efficacia, economie di traduzione, eliminazione degli "ostacoli tecnici nazionali"; tutti argomenti che valgono più dal punto di vista del produttore che del consumatore. La richiesta è che sia ponga fine al "protezionismo culturale delle nazioni"; si invoca il ruolo importante dell'inglese nel mercato mondiale, il fatto che sia la lingua straniera più imparata (ed è vero), la sua posizione di "comune denominatore linguistico" di tutti i Paesi dell'Europa (ed è un'assurdità) nonché "la avanzata degli Stati Uniti in campo tecnologico e scientifico" (che si suppone da noi accettata in Europa con riconoscenza).

L'Ue dovrebbe agire in modo da impedire "che una nazione si opponga ai principi fondamentali del­l'organo sopranazionale di governo" (argomentazione che mostra di non comprendere affatto le modalità decisionali all'interno dell'Ue). La conclusione è che l'adozione di una lingua unica servirebbe "ad unificare, piuttosto che a dividere, gli Stati membri" (op.cit, 202). E' così che si cerca di vendere - in modo più o meno sottile – il monolinguismo americano come europeizzazione sotto copertura della globalizzazione.

In realtà è molto probabile che i governi europei non abbiano alcuna voglia di seguire tale indirizzo Molti fra loro hanno promulgato leggi per resistere all'offensiva dell'inglese, o prevedono di farlo. Intanto il Vanderbilt Journal of Transnational Law è letto verosimilmente dagli avvocati d'affari americani, che potrebbero progettare di verificare la validità di questo principio davanti al tribunale. La decisione che potrebbe prendere la Corte Europea di Giustizia dopo l'esito di un processo è imprevedibile. Ma sembra proprio che la Commissione voglia risparmiar loro spese e lavoro.

Nel luglio 2002 la Commissione Europea ha inviato una formale lettera di accusa al Governo francese, in cui si espone che l'esigenza nazionale di

etichettatura in francese dei prodotti alimentari (conforme alla legge francese) è contraria ai testi europei. Esistono - a tutt'oggi – pochi casi di contenzioso in questo campo; le decisioni prese sono veramente piene di ambiguità , nonostante - a dir il vero - la direttiva del Consiglio d'Europa sull'armonizzazione della legislazione degli Stati membri in materia di etichettatura ed imballaggio dei prodotti alimentari. La giurisprudenza europea sembra orientata nel senso che la legge nazionale non può pretendere il ricorso ad una lingua particolare se il messaggio può essere espresso in altri modi tra cui un'altra lingua facilmente comprensibile, possibilmente integrata da pittogrammi. L'intervento della C.E. suggerisce la possibilità che il passaggio del mercato unico verso una lingua commerciale unica sia già cominciato.

Quest'iniziativa della C.E. è vista da molti in Francia come un primo passo strisciante verso qualcosa di più grosso. Secondo un comunicato-stampa dell'Alleanza per la Sovranità della Francia , la CE "tenta d'imporre l'anglo-americano" in tutto e per tutto [...]. "La costruzione dell’Europa rappresenta la sua distruzione a profitto dell'America mercantile". Un'Associazio­ne intitolata Difesa della Lingua Francese ha organizzato una manifestazione pubblica nel gennaio 2003, nonostante il governo francese avesse corretto la regolamentazione, per uniformarsi alle esigenze del diritto europeo, pubblicando un nuovo decreto ministeriale che mantiene l'obbligo dell'etichettatura in francese dei prodotti, ma che stabilisce anche la possibilità di usare altre lingue a tale scopo . Ma la cosa non si fermerà lì. Quest'esempio di contro­versia fra la CE e un governo nazionale riassume l'inadeguatezza del trattamento riservato alle politiche linguistiche.

Un secondo esempio che conquistò la 1a pagina dei giornali fu la proposta di modificare una delle procedure interne di traduzione nella Commissione di Bruxelles, nel quadro di un programma di economie di spese. Il governo francese ebbe conoscenza di tale piano, a seguito del quale il 2 luglio 2001 fu inviata una lettera comune dei Ministri degli Affari Esteri francese e tedesco, Hubert Védrine e Joschka Fischer, al Presidente della CE Romano Prodi. Questa lettera accusava la CE del tentativo d'introdurre il "monolinguismo" nelle istituzioni della Ue, il che equivaleva chiaramente all'istituzione dell'inglese come unica lingua di lavoro interno. Ciò rappresentava una deriva inac­cettabile rispetto al sistema

abituale. La replica di Prodi, trasmessa in francese ed in tedesco, as­sicurava che il multilinguismo era d'importanza cardinale per la Ue; che niente era stato deciso, ma bi­sognava tener conto dell'efficacia e delle economie da fare nei servizi linguistici. L'imminente al­largamento della Ue rendeva queste misure ancor più importanti.

La stampa, in questa fase, aveva posto in risalto un “complotto per imporre l'inglese all'Ue" (Irish Time), "Fisher et Védrine si oppongono all'invasione dell'inglese" (Frankfurter Allgemeine Zeitung), "I progetti linguistici di Kinnock irritano i Francesi" (The Independent), eccetera. Molta stampa riporta affermazioni inesatte riguardo l'attuale sistema ed i sui costi, sbizzarrendosi in interpretazioni fantasiose e nazionalistiche. Lo scambio di lettere e gli articoli apparsi ri­velano chiaramente che si è toccato un nervo scoperto. Queste due controversie sono esempi perfetti della tensione costante fra interessi nazionali e sopranazionali, nonché dell'assenza di pro­cedure e principi adeguati alla soluzione del problema.

Io temo che ciò avvenga sempre a livello sopranazionale, e spesso nazionale, anche nei Paesi che si mostrano impegnati sulla politica linguistica, come la Francia. L’impegno francese ha influito sul sostegno della diversità linguistica nelle pro­clamazioni dell'Ue ma si nota una difesa speciale per il francese piuttosto che per i diritti di tutte le lingue in questione.

Molti fattori spiegano perché la politica linguistica non venga condotta in modo più semplice ed adeguato. Vi sono delle grandi differenze nelle ideologie alla base della formazione degli Stati e nel ruolo attribuito alla lingua (la tradizione romantica nazionale, jus sanguinis, Herder, come in Germania, e la tradizione repubblicana, jus soli, cittadinanza, come in Francia). Le questioni linguistiche sono dunque intese in modo differente nei differenti Paesi, ivi comprese nozioni di base come quelle di lingua e di dialetto; questo impedisce ogni comprensione condivisa dei problemi di politica linguistica. Il livello di coscienza dei problemi politico-linguistici varia notevolmente da un Paese all'altro del­l'Ue ed all'interno di ciascuno di essi. E’ elevato - per esempio — in Finlandia ed in Grecia, ma spesso con un punto di vista molto selettivo; ma è debole in Danimarca ed in Inghilterra. Le Università e gl'Istituti di ricerca europei non sono affatto attrezzati in materia di analisi della politica linguistica, del multilinguismo e dei diritti linguistici e ciò riflette la penuria di investimenti in tale campo. Le attribuzioni in materia di politica linguistica in ciascun Paese sono di solito ripartite fra i ministeri degli affari esteri, dell’ istruzione, cultura, ricerca e commercio. Gli uni e gli altri sono in genere poco competenti in materia di politica linguistica; oltretutto il co­ordinamento fra loro è inadeguato o inesistente. Nei Paesi a struttura federale le responsabilità sono ancora più dilatate. Poichè l'inglese è usato ampiamente dai suoi locutori - nativi o no — in varie parti del mondo, non esiste un rapporto diretto tra il suo impiego e gl'interessi di uno Stato particolare. Resta il fatto che l'inglese è legato al sistema economico dominante e ha una posizione consolidata come lingua straniera più diffusa nelle scuole (molto più accentuata nel Nord che nel Sud Europa) e nelle reti di comunicazione su scala mondiale. In tal modo la politica del laissez faire comporta grandi rischi per tutte le lingue tranne, ap­punto, l'inglese. Lasciare la politica linguistica alle forze del mercato - a livello sia nazionale che istituzionale sopranazionale — significa più inglese e meno altre lingue.

Per sapere se il progredire dell'inglese segnerà il naufragio delle altre lingue, bisognerà esplorare tutta una serie di funzioni e contesti del linguaggio. Per il fatto che vengano utilizzate parallelamente nelle istituzioni dell'Ue undici lingue, si può so­stenere che queste si rinforzino tutte su scala internazionale, anche se non necessariamente in egual misura e senza mettere in discussione una gerarchia fra di loro.

Non affronterò il complesso problema del funzionamento dei servizi di traduzione o d'interpretazione ma mi limiterò a dire che essi sono generalmente ritenuti eccessivamente costosi, mentre di fatto non rappresentano attualmente che lo 0,8% del bilancio complessivo di tutte le istituzioni dell'Ue il che significa 2 euro per ogni cittadino europeo (somma insignificante a confronto alle sovvenzioni per l'agricoltura). Si tratta di un modesto prezzo da pagare al principio secondo cui l'uso delle lingue di tutti gli Stati membri è obbligatorio, in particolare quando si tratta di elaborare e far proprio un flusso costante di documenti aventi forza di legge in tutti gli Stati membri.

La parità delle 11 lingue ufficiali dell'Ue è un problema complesso a cui i resoconti della stampa sulle istanze linguistiche, provocati da qualche crisi particolare, rendono raramente giustizia .Le politiche linguistiche in Europa riflettono molte tensioni e paradossi non risolti ed tra loro connessi: un retaggio di Stati “nazione”, di lingue ed interessi “nazionali” MA un'integrazione sopranazionale e l’internazionalizzazione di molteplici campi (commercio, finanze, educazione, scienza, politica e società civile degli Stati membri dell'Ue), l’uguaglianza formale degli Stati membri dell'Ue e delle loro lingue MA un ordine preferenziale fra Stati e lingue, attualmente evidente nel passaggio dal francese all'inglese come principale lingua di lavoro delle istituzioni dell'Ue. Le cifre circa i documenti di prima stesura riflettono un drammatico cambiamento, da una ventina d'anni, da principalmente francese a principalmente inglese, la spinta dell'americanizzazione e dell'omogenizzazione culturale (“McDonaldisation”) e l’egemonia dell’inglese, MA la celebrazione della diversità linguistica europea, il multilinguismo, l’ibridismo cultura­le e linguistico, e un certo sostegno per i diritti linguistici nazionali e delle minoranze; le lingue viste come semplici mezzi tecnici, pragmatici MA le lingue come marcatori d'identità esistenziali per individui, culture, gruppi etnici e Stati, la politica linguistica come questione di pratica MA la politica linguistica come "politicamente sensibile", un modo codificato per gli uomini politici, gli eurocrati e i diplomatici per riconoscere che non sanno come riformare il presente regime, né migliorare la comunicazione interna ed esterna dell'Ue. Un problema che l'allargamento ha reso ancor più complesso; la Germania come forza demografica ed economica dominante in Europa MA il tedesco sempre più emarginato nel sapere, nel commercio, nella cultura giovanile e sul mercato linguistico mondiale, analogamente alla riduzione dell'influenza internazionale del francese. L'emergere dell'inglese come prima lingua straniera in Europa – per la sua evidente utilità pratica – porta con sè la scomparsa delle altre lingue straniere, mentre pochi sistemi di istruzione affrontano seriamente il problema di garantire la diversità nell'insegnamento linguistico, sia riguardo le lingue straniere sia le lingue delle minoranze regionali o dei Paesi confinanti; l’inglese promosso come panacea linguistica MA su 378 milioni di cittadini degli Stati membri solo 61 milioni parlano l'inglese come lingua materna, meno della metà degli altri conoscono l'inglese come lingua straniera e la proporzione di chi lo parla con sicurezza varia grandemente da un Paese all'altro . E' stupefacente che gli Stati in­vestano pesantemente per l'apprendimento di una lingua che simboleggia l'imperialismo culturale, delle cui forme e meccanismi si ha poca o nessuna coscienza.

Quando si discute di politica linguistica dell'Ue manca completamente la chiarezza perché molti concetti centrali sono abborracciati e privi di logica. Farò tre esempì: In teoria, le undici lingue hanno tutte lo stesso status di lingua ufficiale e di lavoro; in pratica, si tende a restringere le “lingue di lavoro” al francese e all'inglese e - in certi campi –anche al tedesco. Questa confusione terminologica (che è presente nella lettera scritta a Romano Prodi dai ministri degli Affari Esteri di Francia e Germania sopra menzionati) sta ad indicare l'accettazione di una gerarchia delle lingue. Certe lingue sono più eguali di altre.

Secondo, il termine “lingua franca” tende ad essere utilizzato come se ci fosse uguaglianza fra gli utenti della lingua in questione; ma è verosimile che i locutori nativi e quelli non nativi del francese o dell'inglese abbiano le stesse prestazioni sul terreno di gioco linguistico? L'etichetta innocua nasconde la dimensione del potere che privilegia alcuni e svantaggia altri. Natural­mente l'uso della lingua materna non ne garantisce l'intelligibilità. Le persone che adoperano molte lingue, hanno maggiore sensibilità - rispetto ai monolingui - verso la comunicazione interculturale. Terzo, i termini "nativo /non nativo " considerano certi fruitori della lingua come autentici ed infallibili mentre bollano altri. Nei circoli in cui ci si occupa dell'insegnamento dell'inglese come lingua straniera e' cominciato il lavoro di descrizione e rivalutazione dell'inglese parlato dagli europei del continente.; e ciò per molte ragioni. L'inglese è usato efficacemente da innumerevoli persone per le quali esso non è la prima lingua - il che modifica la "proprietà" dell'inglese - e questi utenti forse dovrebbero essere considerati locutori fluenti di una lingua non-nazionale o post-nazionale piuttosto che soggetti che parlano male un inglese madrelingua. Si tratta di un'idea interessante, ma non è chiaro se ciò possa avere delle implicazioni per la pedagogia della lingua. Le supposte virtù dei locutori nativi assicurano loro, attualmente, un vantaggio colossale - anzitutto sul mercato del lavoro e non soltanto come docenti di lingua. La Commissione e il Consiglio d'Europa sono stati richiamati all’ordine per aver favorito illegittimamente le persone di madrelingua inglese nelle offerte di posti di lavoro ai quali tutti i cittadini dell'Ue avrebbero dovuto ugualmente ac­cedere. Il controllo in questo campo spetterebbe all’'istituto dello Ombudsman dell'Ue ma i suoi poteri sono attualmente assai limitati.

In tal modo certi nostri concetti di base in materia di politica linguistica sono illusori. Al di là dei fattori ideologici che offuscano l'analisi a livello sopranazionale in questo campo, troviamo la banale realtà della persone che mal si capiscono fra loro, con o senza l'assistenza di interpreti. I paradossi non risolti rimangono. La sfida di illuminate politiche linguistiche più eque attende ancora di essere raccolta.

Il fatto che un gran numero di funzionari, di esperti, di studiosi, d'insegnanti e di ONG parte­cipino alle attività dell'Ue aggiunge un'identità linguistica sopranazionale alle identità linguistiche nazionali esistenti. Coloro che

padroneggiano l'inglese e il francese, come prima o seconda lingua, si trovano in una posizione privilegiata. Non c'è bisogno di aggiungere che le lingue straniere si possono imparare con successo, anche dagli stessi inglesi e francesi. Sul continente europeo l'inglese è stato sempre studiato come lingua supplementare e, fino ai nostri giorni, è stato difficile immaginare che chi parla tedesco o svedese corra il rischio di vedere la lingua materna marginalizzata o atrofizzata a livello individuale o di gruppo. Può darsi che il quadro si evolva. Ciò è dovuto all'in­vadenza dell'inglese in molti campi.

Con un grosso titolo di copertina l'edizione europea di Business Week del 13 agosto 2001 poneva la domanda: “Si deve tutti parlare inglese?” L'articolo era preceduto dal sottotitolo “Lo spartiacque dell’inglese. In Europa parlare la lingua franca separa chi ha da chi non ha”. Il disegno di copertina rappresenta due uomini d'affari: uno comunica con successo (quello che parla inglese); l'altro resta muto, senza voce. Qui si vuole lanciare il messaggio che la conoscenza dell’inglese è indispensabile nel mondo degli affari di tutta l’Europa. E’ implicito che la conoscenza di altre lingue non porta da nessuna parte. L'articolo riferisce come un numero sempre maggiore di società europee passa all'inglese come lingua interna dell'impresa. Inoltre come l'inglese degli affari sia un ottimo affare per gl'istituti linguistici che insegnano tale lingua. Questo settore occupa il secondo posto per l'economia britannica dopo il petrolio del Mare del Nord.

L'inglese come Tyrannosaurus Rex della comunicazione scientifica, non è una specie estinta. In certe facoltà universitarie della Norvegia i ricercatori sono ricompensati con un premio importante se pubblicano in inglese, mentre qualunque cosa scrivano nella loro lingua non porta loro che poca cosa. La tendenza è che una pubblicazione "internazionale" sia in­trinsecamente superiore, anche in Paesi con una lunga tradizione di ricerca ; e questo influisce sui criteri d'impiego e sulla scelta dei soggetti di ricerca. Il predominio del­l'inglese come lingua della scienza - tanto nelle pubblicazioni che nella formazione post-laurea – desta preoccupazione, con campanelli d'allarme in Austria, in Danimarca, in Germania ed altrove.

Vi sono stati di recente nei Paesi del Nord due fatti degni di menzione. Il Consiglio dei Ministri dei Paesi Nordici ha commissionato nel 2001 una ricerca sulle possibili perdite di terreno delle lingue scandinave; lodevole esercizio, perché mentre tutti sembrano avere un'opinione sulla politica linguistica mancano spesso dei dati certi che documentino le tedenze attuali. Secondo i dati ottenuti esiste il rischio che le lingue nordiche subiscano un degrado in certi campi, in modo particolare in quello scientifico e tecnologico. Il governo svedese ha inoltre nominato una commissione parlamentare per valutare se lo svedese venisse minacciato dall'inglese, nonché per elaborare un piano d'azione mirante a garantire che lo svedese resti una lingua completa — che chi la parla come prima o seconda lingua abbia la possbilità di impararla e di usarla al meglio - e conservi interamente i suoi diritti di lingua ufficiale e di lavoro nell'Ue. Il piano mira anche di assicurare che gli svedesi dispongano delle risorse necessarie nel campo delle lingue straniere, particolarmente per l’ inglese e che gli svedesi di lingua minoritaria godano di diritti linguistici. E’ attualmente in corso una consultazione nazionale che porterà ad una legge entro il 2004. Sembra che questo Stato-Nazione stia passando dal monoliguismo ad uno spettro variegato di multilinguismo.

La differenziazione funzionale fra più lingue non è cosa nuova. Christian Wilser -il poeta che per primo tradusse l’Iliade e l’ Odissea di Omero dal greco al danese — scriveva nel 1827: “Ogni gentiluomo che tiene alla propria educazione

non mette mano alla penna se non in latino,parla in francese alle signore, in tedesco al suo cane e in danese ai suoi domestici “. Da allora abbiamo avuto in tutta Europa l'apogeo dello stato-nazione monolingue, la cui solidità viene oggi incrinata dall’americanizzazione e dall'europeizzazione. Attual­mente siamo testimoni dell’erosione del monopolio d'una lingua nazionale, unificante e stratificante, negli stati-nazione. Tutto ciò pone numerose questioni di diritto linguistico. E' possibile che l'accesso alla lingua internazionale dominante sarà la discriminante tra ricchi e poveri nei Paesi dell'Europa continentale in senso più ampio di quel che volesse dire Business Week. In sostanza si tratta del ruolo dell'inglese negli Stati postcoloniali dove questa lingua apre le porte ai pochi e le richiude in faccia ai molti. In gran parte dell'Europa, la conoscenza dell'inglese diventa un requisito indispensabile per l'accesso agli studi superiori e per l'occupazione, insieme alle forme preferite di comunicazione nella lingua nazionale. Gli Stati si adattano alla globalizzazione, le cui conseguenze dal punto di vista politico-linguistico non sono sempre evidenti. Non si sa più molto bene in qual misura gli Stati decidano della politica linguistica nazionale, o se l'iniziativa sia già passata alle istituzioni dell'Ue, ai consigli d'amministrazione delle multinazionali e ai buttafuori anglofoni da cui di­pende l'accesso ad innumerevoli campi d'azione.

L'Ue, fondamentalmente, si è astenuta dall'affrontare il problema al di fuori della necessità di assicurare il funzionamento delle sue istituzioni sul piano interno ed estero con un numero limitato di lingue. Il vertice di Copenaghen del dicembre 2002 si è preoccupato soprattutto di arrivare ad un accordo sulle condizioni di adesione dei nuovi stati membri. Alla conferenza stampa dei capi di stato e di governo dei paesi membri vecchi e nuovi, ad accordo concluso, lo striscione alle spalle degli uomini politici recava ONE EUROPE in una sola lingua. Ciò spinse il ministro degli esteri spagnolo Ana Palacio a scrivere sul quotidiano El Pais del 16 dicembre 2002: " Il motto One Europe, solo in inglese, richiede una riflessione. Anche se Copenaghen non ha affrontato il problema della lingua queso è uno degli argomenti in sospeso che devono essere dibattuti il più presto possibile per la sopravvivenza e l’attuabilità di questo progetto d'Europa a vocazione mondiale. In questo quadro lo spagnolo, una delle lingue ufficiali dell’ ONU, parlato da oltre 400 milioni di persone in più di 20 paesi, deve prendere il posto a cui ha diritto".

Quale dovrebbe essere però questo "posto" non è chiaro,perché il problema delle lingue a livello europeo non è stata trattata in modo aperto. L'argomento è "esplosivo", come lo ha dichiarato il pre­sidente del gruppo dei deputati francesi al Parlamento europeo Pierre Lequiller, in una riunione organizzata nel giugno 2003 per esaminare un Rapport sur la diversité linguistique au sein de l’Union européenne redatto da Michel Herbillon.

La Convenzione sull'Avvenire dell'Europa non ha trattato questioni di politica linguistica, anche se tra gli obiettivi delle recenti riforme dell'Ue vi è una maggiore responsabilità e una migliore comunicazione fra cittadini e istituzioni Ue. La Convenzione ha scelto di ignorare le "Proposte linguistiche per l'avvenire dell'Europa" presentate dal gruppo Europa Diversa, che si batte per politiche più attive in difesa della diversità linguistica, per la costituzione di un fondo speciale per tutte le lingue autoctone dell'Europa, per il principio di sussidiarietà che garantisca che il potere e l'autoregolazione in materia linguistica siano de­centralizzati il più possibile e per l'organizzazione di un pubblico dibattito sulla riforma del regime linguistico nelle istituzioni dell'Ue. La Convenzione ha deciso di ignorare ugualmente la proposta presentata da Le droit de Comprendre - Groupement d’associations pour l’action (Avenir de la langue française, Association pour la sauvegarde et l’expansion de la langue française, Défense de la langue française, Résistance à l’agression publicitaire) to the effect that

• Un domaine fondamental de la culture et de l’identité des peuples a été passé sous silence par les autorités politiques, celui des langues. • Ce terrain abandonné a été investi par les commissaires et les fonctionnaires de la Commission, ou des autres institutions, pour imposer un choix linguistique, sans souci de l’avis des citoyens et de leurs représentants. Ce choix se porte d’une manière évidente sur l’anglais, langue unique de l’Europe

( Un campo fondamentale della cultura e dell'identità dei popoli è stato passato sotto silenzio dalle autorità politiche, quello delle lingue. Questo terrreno trascurato è stato occupato dai commissari e dai funzionari della Commissione o da altre istituzioni per imporre una scelta linguistica, senza preoccuparsi del parere dei citta­dini e dei loro rappresentanti. Questa scelta porta evidentemente verso l’inglese come unica lingua d’Europa)

In occasione della Giornata Europea delle Lingue (26 settembre 2003), il Comité de coordination pour la démocratie linguistique en Europe (che raggruppa un notevole numero di ONG di Francia, Germania ecc.) ha lanciato l'Appello:

L'EUROPA SARA ' MULTILINGUE O NON SARA '.

A parte una certa attività del governo francese all'inizio del 2003 per promuovere l’uso del francese — il mondo politico sembra paralizzato nel campo delle istanze linguistiche.

Questo immobilismo sul problema linguistico è estremamente preoccupante perchè l'inazione può solo rafforzare l’inglese e indebolire le altre lingue. All’interno delle istituzioni europee vi è una pressione costante a fare economie nei servizi di traduzione ed interpretazione. Queste pressioni stanno aumentando a causa del recente ingresso dei nuovi stati membri. Le diverse funzioni e servizi forniti dall'Ue esigono politiche differenti. Non c'è niente di odioso che venga usato un numero ristretto di lingue dagli impiegati di una istituzione che occupa persone di diversi retroterra. Gli eurocrati dovrebbero praticare tre lingue, la lingua madre e altre due, e questo si dovrebbe esigere in particolare dal personale che ha il francese o l'inglese come lingua madre. Per tali impieghi ci si può aspettare un più elevato livello di efficienza nella lettura e nell’ascolto piuttosto che nella scrittura e nel parlato. Al contrario, è irragionevole aspettarsi da rappresentanti degli stati membri, da uomini politici nazionali, da funzionari ed esperti di trovarsi a loro agio con una lingua straniera come con la propria. In teoria ciò non è scontato, perché la interpretazione e la traduzione servono a facilitare le interazioni in campo linguistico, e lo fanno spesso con impressionante efficacia, ma, in pratica, vi sono molti problemi logistici nell’elaborare in parallelo testi di qualche complessità in più lingue e riuscire ad averli pronti in tempo.

Le riforme debbono affrontare i paradossi fondamentali della politica linguistica dell'Ue, chiarire i criteri che possono portare ad una comunicazione multilingue equa ed attuare realmente una politica che rispetti i diritti linguistici e rafforzi la diversità linguistica. Vi è pertanto la necessità urgente di riunire tutte le parti interessate alla politica linguistica. Molte esperienze si sono accumulate nel mondo su tale questione, benché i responsabili politici a livelli nazionali e sopranazionali ne siano ben poco informati. La maggior parte delle opere di carattere sociologico dedicate all'integrazione europea riservano poche pagine alla politica linguistica e tradiscono una grande ignoranza. Gli specialisti di scienze sociali tendono a considerare non problematica l'espansione dell'inglese. A mio avviso tali questioni sono tanto complesse da meritare una ampia trattazione specifica. Il mio libro English-only Europe ? Language policy challenges (Routledge, 2003) [Un'Europa solo inglese? Le sfide della politica linguistica] si propone di passare dalla descrizione di una situazione passata e presente delle lingue in Europa a una serie di 45 raccomandazioni specifiche concepite per garantire un più alto profilo ed una trattazione più competente. Esse sono raggruppate in 4 categorie: l’infrastruttura nazionale e sopranazionale di politica linguistica, le istituzioni dell'Unione europea, l’ insegnamento e l’apprendimento delle lingue, la ricerca.

C'è da sperare che queste raccomandazioni non resteranno solo delle speculazioni erudite prima che si crei la volontà politica dal basso all'alto e viceversa di staccarsi dal laissez faire e dai rudimentali ordini del giorno nazionali passando ad un’agenda più costruttiva che trasformi in realtà la retorica Ue sul mantenimento della diversità. Nessuna lingua è di per se buona o cattiva. L'inglese può esser usato per garantire il sorgere di un ordine linguistico più equo in Europa.

Traduzione di Giorgio Bronzetti dal testo originale inglese privo di note scaricato da:

http://www.tejo.org/uea/Artikolo_de_R._Phillipson_por_Panoramiques_en_la_angla