Daniele Archibugi

1. Alla ricerca della lingua franca europea

 

Un cronista eccezionale, Gustave Flaubert, narra come durante i moti europei del 1848, ci fu chi, proprio nella Parigi che aveva dato l’avvio al fragore rivoluzionario, si pose il problema di trovare una lingua in grado di diventare il mezzo di comunicazione della nuova Europa:


”Michele Evaristo Nepomuceno Vincent, ex-professore, esprime il voto che la democrazia europea adotti un linguaggio unico; potrebbe servire una lingua morta, come, ad esempio, un latino perfezionato”.[1]

 

Suggerire il latino come nuova lingua del continente intendeva porre tutti i popoli sullo stesso piano, ridimensionando le aspirazioni del francese come lingua franca continentale. Tali aspirazioni linguistiche non erano dispiaciute alla vecchia aristocrazia europea (il francese di Federico II e di Caterina II non era peggiore di quello di Luigi XVI) ed erano state esplicitate durante la Grande Rivoluzione: Anacharsis Cloots, ad esempio, predicava la repubblica universale, indicava Parigi come capitale del mondo, e il francese come lingua planetaria (Cloots, 1793, p. 9). Tali fantasticherie erano state malauguratamente issate sui moschetti delle truppe napoleoniche, epigoni tardivi e incoerenti dei giacobini, che avevano imposto unità di misura, codici e perfino festività comuni a tutta Europa, sempre però espresse in francese. Se, insomma, nel 1848 c’erano parigini che pensavano che il latino avrebbe dovuto rimpiazzare il francese come lingua franca, ciò andava inteso come atto di umiltà volto a mettere tutte le nazioni, incluse quelle più giovani e che si affacciavano piene di fervore sulla scena europea, sullo stesso piano.

Eppure, l’uguaglianza tra le nazioni che doveva essere assicurata dal resuscitare una lingua morta non significava rendere anche gli individui uguali. Il latino era lingua diffusa in tutta Europa, ma era conosciuta sempre dalle stesse classi sociali: gli aristocratici, i dotti e i preti. All’interno di ogni paese, il latino serviva ad escludere la maggioranza della popolazione dai riti religiosi, scientifici, civili e politici. Più del francese, e certamente più dell’inglese o del tedesco, il latino avvicinava i membri della comunità delle lettere, ma al prezzo di escludere la stragrande maggioranza della popolazione. Un pensatore lungimirante come Condorcet lo aveva capito all’apice della stagione rivoluzionaria, quando aveva notato che solamente con il ripudio del latino come lingua di comunicazione si era infranta la barriera che aveva escluso tante persone dalla conoscenza, consentendo finalmente notevoli progressi nelle scienze (Condorcet, 1794, p. 143). Che erano, appunto, avvenuti in una miriade di lingue, quelle delle nazioni.

L’idea che fosse necessaria una lingua comune è periodicamente ricomparsa nella storia europea e mondiale ogni volta che ci sono stati moti rivoluzionari: la questione fa capolino nei Congressi della Pace, nelle varie Internazionali del Lavoratori, e oggi nei World Social Forums. Non sorprende dunque che tale idea sia emersa anche nel momento più alto dei conflitti nazionalistici dell’Ottocento – i moti del 1848, appunto – a testimoniare che le istanze patriottiche o nazionaliste dell’epoca non erano per nulla in contraddizione con il sentimento cosmopolitico. Giuseppe Mazzini, tanto per citarne uno, era allo stesso tempo promotore della Giovane Italia e della Giovane Europa, e non vedeva contraddizione tra la perorazione di una Italia unita sulla base di una cultura e di una lingua nazionali e di un’Europa di popoli liberi. Anzi, riteneva che solo nazioni libere si potessero unire tra loro. E per farlo, avevano anche bisogno di una lingua per la comunicazione (Mazzini, 1997. Si veda anche Urbinati, 1996).

Il problema linguistico è oggi diventato pane quotidiano delle organizzazioni internazionali e dell’Unione Europea (Nanz, 2001), che ogni giorno devono varare nuovi protocolli di comunicazione tra membri dei governi, burocrati e semplici cittadini. Spesso le esigenze del Cerimoniale condizionano e rendono più difficile la comunicazione. Le organizzazioni inter-governative si affidano alla sapienza linguistica di diplomatici o funzionari poliglotti. Le soluzioni adottate sono certamente lontane dall’essere ideali, ma in modo pragmatico sembra che le organizzazioni internazionali abbiano trovato mezzi per consentire la comprensione linguistica.

Un partigiano contemporaneo della democrazia noterebbe che la storia europea ha visto sì città, popoli e nazioni diverse entrare in contatto tramite la lingua almeno quanto con la spada, ma chi teneva le redini del contatto non era la maggioranza della popolazione, il demos, ma le élites, l’oligos. Dinastie ereditarie, sostenute da diplomatici e eruditi, hanno tenuto nelle proprie mani la politica estera, ancor più saldamente della politica interna, anche perché godevano di un monopolio nella comunicazione linguistica. Il principio democratico, ovviamente, intende infrangere questo monopolio, e per farlo ha anche bisogno del mezzo linguistico adatto. C’è quindi da chiedersi se l’assenza di una lingua comune limiti la possibilità di un processo democratico tra comunità linguistiche diverse.

Lo scopo di questo saggio è di esplorare tale questione, soprattutto alla luce dell’idea che la politica democratica, come sostenuto da Will Kymlicka (2001), possa essere veicolata solo nelle lingue vernacolari. Nel discutere il problema linguistico, credo che emergano le differenze tra la prospettiva cosmopolitica e quella multi-culturalista; alla base non sembra esserci un modo distinto di intendere la democrazia, quanto una diversa concezione del progresso storico. Il presente articolo è così organizzato: la prossima sezione definisce i termini del problema, la sezione 3 espone la tesi che dà il titolo al saggio, ossia che la vita politica possa trarre vantaggio dall’esistenza di una unica lingua all’interno di una comunità, ma ciò che distingue la politica democratica è la volontà di capire non solo il simile, ma anche il diverso. In assenza di medio linguistico, la politica democratica si distingue per la predisposizione a crearlo artificialmente, come esemplifica la metafora dell’esperanto. La sezione 4 affronta le implicazioni per la concezione della democrazia del discorso linguistico. Nella sezione 5 riporto alcuni casi paradigmatici – reali e immaginari – di comunità multi-linguistiche e mi chiedo quali siano i suggerimenti avanzati da parte dei teorici multi-culturalisti e da quelli cosmopolitici. Alcune conclusioni sono delineate nell’ultima sezione.

 

 

2. Diritti linguistici e comunità politiche

 

Nell’ultimo ventennio, è affiorato con forza un problema che era stato finora soffocato o ignorato: quello delle diversità linguistiche all’interno della stessa comunità politica. Lì dove le lingue delle minoranze erano state a lungo represse, come in Spagna o nelle ex-Repubbliche sovietiche, è riemersa la diversità, che ha portato al multi-linguismo o addirittura alla secessione. Ma sono sorti conflitti e rivendicazioni anche all’interno di stati consolidati come il Belgio e la Svizzera. In altri contesti, la diversità linguistica è comparsa come conseguenza di mutamenti nella struttura demografica: ci sono più di trentacinque milioni di “hispanicos” negli Stati Uniti, che continuano a preservare la propria lingua e i propri costumi, e se si manterranno gli attuali trend demografici, ben presto gli Stati Uniti saranno il paese del mondo con la più elevata popolazione di lingua spagnola. Berlino è da anni la seconda città turca del mondo, mentre l’Unione Europea sta faticosamente costruendo la propria integrazione nonostante la pluralità delle lingue esistenti. Insomma, il multi-linguismo è diventato una parte imprescindibile di tutte o quasi le comunità politiche. Al di là dello stato, le organizzazioni internazionali – governative e non - sono aumentate sia di numero che di importanza, e anch’esse devono quotidianamente affrontare il problema linguistico.

Non si tratta di una novità assoluta. L’impero romano era composto da miriadi di tribù, ciascuna con una propria lingua diversa. Prima della neutralità liberale[2], i romani lasciavano ad ogni tribù ampie autonomie in materia religiosa e linguistica, purché corrispondessero tributi e fornissero soldati. Per preservare il proprio impero, i romani avevano anche l’abitudine di prendere ostaggi, scelti tra i figli più promettenti delle famiglie aristocratiche, ai quali fornivano educazione in latino, senza nemmeno richiedere di pagare le tasse universitarie, e che spesso diventavano il tramite per rapporti di collaborazione e di dominio. Dopo i romani, molte altre comunità linguistiche hanno dovuto fare i conti con la differenza delle lingue. Ma, possiamo dire, questa differenza è stata tollerata perché gli individui erano sudditi e non cittadini. Ai sudditi, per la stragrande maggioranza impegnati nella vita agricola, non si richiedeva di dare fiato ai propri pensieri, ma solo di lavorare la terra e di pagare balzelli. Gli eserciti erano in gran parte composti da mercenari, ai quali si forniva insieme l’addestramento all’uso delle armi e l’apprendimento delle poche nozioni linguistiche necessarie ad eseguire gli ordini. Non era né richiesto né desiderato che il popolo fosse poliglotta.

Il risorgere del problema linguistico nella nostra epoca è il risultato di due fondamentali processi storici contemporanei: il primo riguarda l’aumentata interdipendenza tra comunità distinte, ciò che, per usare una parola che non piace a nessuno, ma che nessuno può fare a meno di usare, si definisce “globalizzazione”. Le comunità politiche statali sono diventate sempre più permeabili a flussi commerciali, migrazioni, matrimoni misti e turismo. Il secondo riguarda invece l’aumentato peso dei diritti individuali; ciò si è espresso sia in un ampliamento dei diritti negli stati democratici che in una estensione del numero degli stati in cui vige la democrazia. Il primo processo è sostanzialmente guidato dalla società civile (nel senso hegeliano), mentre il secondo processo è guidato dalle istituzioni politiche e dalle pressanti trasformazioni cui sono sottoposte.

Se prendiamo come punto di riferimento di organizzazione politica lo stato, possiamo dividere il problema dei diritti linguistici in due grandi categorie. La prima riguarda l’esistenza di diverse lingue all’interno di una comunità statale. E’ questo il problema che sta a cuore ai vari teorici multi-culturalisti. Il secondo problema riguarda invece il multi-linguismo in comunità politiche al di là o attraverso lo stato. In genere, è questo il tema di cui si occupano i teorici cosmopolitici. La Tabella 1 sintetizza le cause e le applicazioni dei diritti linguistici. All’interno di ciascuna casella, sono riportati alcuni dei casi in cui emerge la loro rivendicazione.

 

Tabella 1 – Cause e applicazioni dei diritti linguistici

 

Applicazioni
Cause

Interne allo stato

Esterne allo stato

Globalizzazione

(guidata da fenomeni economici e sociali)

Aumento delle lingue usate all’interno dello stato a causa di immigrazione, scambi commerciali e culturali, turismo, ecc.

Crescente numero di comunità di destino trasversali allo stato con problemi comuni e lingue diverse

Democratizzazione

(guidata da fattori politico-istituzionali)

Richiesta di diritti per le minoranze linguistiche originarie e di nuova formazione

Richiesta di rendere più trasparente e “accountable” il sistema internazionale e le sue organizzazioni

 

 

All’interno dello stato. Per comunità multi-linguistiche all’interno di uno stato possiamo comprendere: a) stati multi-linguistici (come la Svizzera, il Belgio e l’India); b) stati con gruppi di immigrati che hanno preservato la propria lingua (come gli ispanici negli Stati Uniti); c) stati che hanno inglobato popolazioni indigene, le quali hanno mantenuto la propria lingua (come gli aborigeni negli Stati Uniti e in Australia). In tutti e tre i casi, la rivendicazione di diritti linguistici si rivolge ad una istituzione esistente e che già possiede autorità, risorse e esplicite competenze per l’assistenza dei propri cittadini. Ciò ha portato gli stati ad avere più lingue ufficiali (come in Svizzera e in Belgio), a promuovere il bi-linguismo (come in Canada) o a consentire a determinate minoranze regionali di utilizzare la propria lingua (come in Catalogna e in Alto Adige). Tradizionalmente, i regimi autocratici hanno represso l’uso pubblico delle lingue delle minoranze (basti pensare alla Spagna e all’Italia durante il franchismo e il fascismo), fino al caso estremo di reprimerne anche l’uso privato. Ma, come sottolineato con forza da Kymlicka (1999) e Patten (2003), neppure gli stati liberali sono stati neutrali nei confronti delle lingue né, sostengono, questa neutralità è conseguibile. Al contrario, parte del loro processo di costruzione della nazione ha comportato la promozione della lingua ufficiale e la repressione delle altre lingue. Negli ultimi anni, il multi-linguismo è stata la conseguenza diretta della democratizzazione: in Paraguay, ad esempio, da quando si sono tenute libere elezioni, il Guarnì (idioma parlato dalla maggioranza della popolazione) è finalmente diventata lingua ufficiale accanto allo spagnolo.

I problemi sul tappeto sono ancora molti (per una rassegna, cfr. Kymlicka e Patten, 2003). In quali casi è opportuno che lo stato fornisca educazione in lingue diverse da quella dominante? In che misura le restrizioni applicate all’educazione devono valere anche per altri servizi pubblici quali, ad esempio, i servizi sanitari o l’assistenza sociale? Il diritto alla migliore difesa che si riconosce ad un imputato non dovrebbe anche comprendere il diritto ad avere un procedimento penale nella sua lingua materna?

 

Al di là dello stato. Vi è un numero crescente di problemi che non riguardano solo le comunità politiche statali. Anche in questo caso, la dimensione linguistica ha acquisito maggiore importanza, sia perché sono aumentate le sfere di influenza al di là dello stato, sia perché è sempre più fortemente percepito il problema di partecipazione, trasparenza e controllo dell’opinione pubblica alla vita delle esistenti organizzazioni internazionali.

Per molti anni, le organizzazioni intergovernative sono state considerate il dominio esclusivo dei governi: solo i governi partecipavano direttamente alle loro attività, e essi si incaricavano di rappresentare gli interessi dei propri cittadini, fino al punto di poter decidere se e quali informazioni trasferire all’interno della loro comunità politica.[3] Ciò riduceva sostanzialmente il problema linguistico. Compito delle organizzazioni internazionali era quello di facilitare la comunicazione tra gruppi ristretti – i funzionari governativi – mettendo a disposizione mediatori quali corpo diplomatico, burocrati, interpreti e traduttori (che possiamo definire intermediari linguistici). Era poi missione dei singoli governi trasmettere le informazioni rilevanti all’opinione pubblica nazionale. Ma la democratizzazione non è avvenuta solo all’interno degli stati: negli ultimi quindici anni ha investito anche le organizzazioni inter-governative. Da una parte, viene sempre più spesso richiesto di rendere le organizzazioni internazionali più trasparenti e controllabili dall’opinione pubblica, dall’altra esse hanno iniziato ad erogare direttamente servizi agli individui senza l’intermediazione dei governi statali. Si sta così progressivamente istaurando un rapporto diretto tra opinione pubblica mondiale e organizzazioni internazionali, e ciò ha esacerbato il problema della comunicazione linguistica. La trasparenza e il controllo sull’azione delle organizzazioni internazionali e l’erogazione dei servizi sono necessariamente affidate ad intermediari linguistici; più le lingue differiscono, più rilevante è il filtro esistente nel rapporto tra cittadino e processo politico.

Occorre tuttavia segnalare una fondamentale differenza tra la rivendicazione di diritti linguistici all’interno e al di sopra dello stato: come per i diritti umani, al di sopra dello stato non esistono istituzioni e procedure consolidate che si possano far carico del rispetto dei diritti linguistici. L’individuo può solo in rarissimi casi rivendicare diritti nei confronti delle esistenti organizzazioni internazionali. Un cittadino non può richiedere che determinati servizi forniti dalle organizzazioni internazionali siano disponibili anche nella sua lingua perché le lingue ufficiali sono stabilite dai governi e non dai loro cittadini.

Al di là dello stato, bisogna anche tenere in considerazione il ruolo crescente delle organizzazioni non-governative. Amnesty International, Medecins sans Frontieres, associazioni professionali e culturali stanno sempre di più emergendo come un reticolo della società civile globale (per una rassegna sulla società civile globale, rimando a Kaldor, Glasius e Anheier, 2001, 2002, 2003). Al loro interno, queste organizzazioni hanno spesso trovato lingue franche di comunicazione, ma nel momento in cui entrano in contatto con realtà locali specifiche, anch’esse devono affrontare un problema linguistico. A causa del proprio carattere non governativo, queste organizzazioni definiscono autonomamente i canali di comunicazione, ma quali che siano le loro scelte, esse svolgono attività politica in un contesto multi-linguistico.

Il problema non è certamente nuovo: Karl Marx redasse il suo Indirizzo inaugurale all’Associazione Internazionale dei Lavoratori in inglese e tedesco, la lingua dominante dell’Internazionale Socialista era il tedesco e questo creava qualche malcontento tra i membri francofoni, i primi quattro congressi dell’Internazionale Comunista si affidavano ad una miriade di volenterosi interpreti, costretti a lunghe traduzioni a catena che spesso alteravano completamente le battagliere posizioni dei delegati. La maggior parte degli interventi nei Congressi della Pace dell’Ottocento erano in francese, ma molti oratori ricorrevano alla traduzione consecutiva. Nel caso dei Social Forums dei nostri tempi, è abbastanza comune che venga effettuata la traduzione simultanea in molte lingue (addirittura 13 nel caso del World Social Forum di Bombay nel gennaio 2004), disponibile anche nel caso di varie decine di Workshop simultanei, spesso grazie ad interpreti volontari.[4]

 

 

3. Qual è la lingua della democrazia?

 

Carlo V, uomo orgoglioso di regnare su un impero autenticamente mondiale, sosteneva di parlare in spagnolo a Dio, in italiano alle donne, in francese agli uomini e in tedesco al suo cavallo. Carlo V apparteneva a quella ristretta cerchia di aristocratici che, grazie alle lezioni ricevute sin dalla più tenera età da uno stuolo di precettori, poteva permettersi di parlare con disinvoltura molte lingue. Un moderno psicologo sosterrebbe forse che far apprendere a dei bambini, anche se destinati al comando, una mezza dozzina di lingue è una raffinata tortura. Un letterato riterrebbe, al contrario, che tali giovani rampolli sono doppiamente privilegiati perché un uomo possiede tante anime quante sono le lingue che conosce.

Ma la frase attribuita a Carlo V contiene un’altra idea interessante, quella che ciascun aspetto della vita umana abbia una lingua privilegiata. Per quanto non sia stato un campione della democrazia, avremmo il desiderio di chiedere a Carlo V: qual è la lingua della democrazia? Non possiamo ascoltare la sua risposta, ma invece abbiamo sentito chiara e forte quella di Will Kymlicka: “la politica democratica è politica nel vernacolare. Il cittadino medio si sente a suo agio solamente discutendo questioni politiche nella propria lingua. Come regola generale, solamente le élites sono fluenti in più di una lingua, hanno la possibilità di mantenere e sviluppare queste capacità linguistiche continuamente e si sentono a proprio agio nel dibattere questioni politiche in altre lingue in un’atmosfera multi-linguistica. Inoltre, la comunicazione politica ha una grande componente rituale, e queste forme rituali di comunicazione sono tipicamente caratteristiche di una lingua. Anche se una persona comprende una lingua straniera nel senso tecnico, può essere incapace di comprendere i dibattiti politici se non ha la conoscenza di questi elementi rituali.. Per queste e altre ragioni, possiamo ritenere – come regola generale – che più il dibattito politico ha luogo nel vernacolare, e più elevata sarà la partecipazione” (Kymlicka, 2001, p. 214).

Se queste affermazioni intendono essere una descrizione di come si è evoluta la politica democratica nel corso di venticinque secoli, è difficile essere in disaccordo: la democrazia si è sviluppata in comunità sostanzialmente ristrette che riuscivano a comprendersi non solo per la stessa lingua, ma anche per un insieme di codici taciti condivisi tra i membri della comunità. Le prime democrazie erano composte da comunità i cui membri si conoscevano personalmente. Dal punto di vista descrittivo, nessuno nega che una comunità mono-linguistica presenti notevoli vantaggi per la pratica democratica: tutti i cittadini (con la sola eccezione dei sordo-muti) possono partecipare alla vita politica, qualunque istituzione (dal Parlamento al Comitato di Quartiere) può discutere e deliberare senza intermediari, il governo e tutte le istituzioni sono controllabili dai cittadini senza bisogno di interpreti.[5]

Ma in quante comunità politiche ritroviamo questa situazione ideale? I teorici del multi-culturalismo ci hanno, giustamente, descritto un mondo reale che non si conforma ad un quadro di stati mono-linguistici e mono-etnici. La diversità delle lingue e delle culture è una realtà, e probabilmente è destinata ad aumentare all’interno di ciascuna comunità politica. Non parliamo solo degli Stati Uniti, con il suo celebrato melting-pot e le varie centinaia di minoranze etniche e linguistiche. Perfino paesi come la Svezia e la Finlandia, le cui lingue si sono mantenute per secoli dominio esclusivo dei nativi, si trovano a fronteggiare problemi nuovi dovuti alla recente immigrazione. Allo stesso tempo, i problemi che sono al di là delle competenze delle singole comunità politiche statali sono anch’essi destinati ad aumentare: le decisioni in materia di politiche agricole e dell’immigrazione della Svezia e della Finlandia sono sempre più spesso prese a Bruxelles piuttosto che a Stoccolma e a Helsinki.

Né possiamo ignorare che la democrazia è riuscita, anche se con difficoltà, a risolvere problemi di comunicazione linguistica. Gli Stati Uniti hanno dato il diritto di voto a immigranti provenienti da tutto il mondo, e anche se il Presidente, il Congresso e la Corte Suprema hanno usato esclusivamente l’inglese, i partiti politici sanno che per vincere le elezioni sono necessari anche i voti di milioni di Hispanicos. Anche l’India è diventata uno stato nonostante la diversità delle lingue e un livello di benessere assai inferiore rispetto a quello degli Stati Uniti. Al fine di introdurre istituzioni democratiche, l’India ha dovuto adottare una lingua franca diversa da quelle locali, l’inglese dei vecchi colonizzatori, e ciò si è dimostrato politicamente assai meno controverso dell’adozione dell’hindi, percepito come lingua di una parte e non di tutti gli indiani (cfr. Chandholke, 2002). Lo stesso è accaduto in molte altre colonie, dove la lingua dei colonizzatori è diventata la lingua pubblica, mentre le lingue vernacolari (spesso diverse tra loro) sono rimaste prevalenti nell’uso privato. Lo stesso italiano è diventato lingua nazionale molto dopo la fondazione del Regno d’Italia. In altre parole, ritenere che la lingua sia indipendente dalla comunità politica è un errore storico.

Ma non c’è dubbio che l’epoca attuale ponga nuovi problemi, maggiori di quelli conosciuti nel passato. Che fare di fronte a questi vecchi e nuovi problemi? Né la prospettiva multi-culturalista, né quella cosmopolitica intendono abbandonare i principi e i valori della democrazia e della tolleranza. Nonostante un certo fervore polemico che ha caratterizzato il dibattito recente, le due prospettive hanno molti più punti in comune di quanto generalmente ritenuto. Provo ad elencarli. Entrambi ritengono che:

1) La costruzione degli stati nazionali è stato un processo artificiale, che ha comportato la creazione di “identità immaginarie” (Anderson, 1991).

2) In tutti gli stati si pratica una omogeneizzazione culturale che ha l’effetto di distruggere culture e lingue locali. Anche gli stati liberali, direttamente o indirettamente, avallano queste pratiche.

3) La diversità delle lingue del pianeta è un valore da preservare e, preso atto della rapidità con cui le vecchie lingue scompaiono nel mondo contemporaneo,[6] dovrebbe compito delle istituzioni governative e inter-governative preservare la varietà linguistica del pianeta tramite apposite politiche culturali.

4) Coinvolgere il numero maggiore di cittadini nel processo decisionale è un valore costitutivo della democrazia ed è compito delle istituzioni favorire la loro partecipazione.

Sulla base di questi presupposti, come deve modificarsi la pratica democratica per far fronte all’esistenza di comunità politiche multi-linguistiche? Pensare che la democrazia, per sopravvivere, richieda condizioni linguistiche specifiche significa sottovalutare la sua duttilità e la sua capacità evolutiva. Occorre, al contrario, modificare ed estendere la pratica democratica in modo da renderla capace di vivere e prosperare anche in condizioni ambientali – come quelle determinate dal multi-linguismo – diverse da quelle finora conosciute. La differenza fondamentale tra la prospettiva multi-culturalista e quella cosmopolitica può forse essere espressa dalla diversa risposta che esse danno alla domanda seguente: “Come affrontare problemi comuni a comunità linguistiche diverse, salvaguardando le libertà individuali e il procedimento democratico?”.

In linea generale, quando si giunge alle politiche pubbliche, i multi-culturalisti tendono a spostare il baricentro del processo decisionale verso il livello locale, mentre i cosmopolitici sono più propensi a spostarlo verso istituzioni di grado superiore: ciò significa sottrarre competenze ai governi locali per affidarle a quello centrale, e sottrarre competenze ai governi statali per affidarle alle organizzazioni internazionali.

Per quanto riguarda il problema linguistico, il multi-culturalismo intende affrontare i problemi comuni conservando l’identità linguistica di ciascuna comunità, e quindi mettendo in atto politiche pubbliche che, di fatto, separino le comunità su base linguistica. Ciò permetterebbe a ciascuna comunità di conservare il proprio procedimento democratico nel vernacolare e di minimizzare l’esclusione all’interno di ciascuna comunità. Il multi-culturalismo privilegia insomma la coesione, anche linguistica, della comunità di base. Il cosmopolitismo, invece, si muove in direzione opposta: non intende, infatti, modificare la composizione della comunità politica, anche quando esse, a seguito di eventi storici casuali, sono composte da persone che parlano lingue assai diverse. Di fronte a problemi comuni, il cosmopolitismo richiede di applicare il procedimento democratico, mettendo in atto politiche pubbliche volte a rimuovere le barriere linguistiche.

Sotto il profilo normativo, la tesi che la politica democratica debba avvenire nel vernacolare diventa pericolosa e addirittura reazionaria. Penso a tutte quelle forze politiche, sparse in Nord America e in Europa, che si oppongono all’integrazione degli immigrati e che, spesso, non lo fanno perché spinte da motivazioni autoritarie, ma al contrario per preservare un elevato livello di auto-determinazione. Queste forze politiche potrebbero, in buona fede, ritenere che l’inserimento di minoranze che non parlano bene la loro lingua possa limitare la vita democratica della propria comunità e che, per preservare la propria democrazia, sia necessario espellere, isolare o naturalizzare chi non abbia lo stesso grado di padronanza linguistica e addirittura reprimere l’uso di lingue diverse da quella dominante (come nel caso del movimento “English Only” negli Stati Uniti, cfr. Crawford, 2000). La tesi di Kymlicka potrebbe così condurre esattamente all’effetto opposto a quello sperato: invece che proteggere i diritti delle minoranze, potrebbe condurre addirittura alla loro violazione.

Per queste ragioni, all’idea che la politica democratica sia politica nel vernacolare, oppongo una tesi opposta, ossia che la politica democratica debba essere in esperanto. Alla tesi descrittiva secondo la quale la politica democratica si svolge nel vernacolare, oppongo un principio normativo: la politica democratica non è in esperanto ma, ove necessario, lo può e lo deve essere. La tesi non si riferisce a tutti i problemi di diritti linguistici affrontati, ma solo ed esclusivamente al problema della lingua necessaria per la comunicazione politica.

L’esperanto è una neo-lingua non dissimile da quella descritta da George Orwell in 1984. Come la neo-lingua, è una lingua molto regolare e con un numero limitato di vocaboli. Fu inventata da Lejzer Ludwig Zamenhof (1889) verso la fine dell’Ottocento per ragioni strumentali, ovvero consentire la comunicazione in collettività multi-linguistiche. Zamenhof era cresciuto nella città di Byelostok, oggi in Polonia e a suo tempo parte della Russia zarista, dove si parlavano quattro lingue diverse. Non sorprende che ci fossero diversi disguidi pratici tra le quattro comunità, fino al punto che Zamenhof pensò ottimisticamente di risolverli creando una lingua che tutte le comunità avrebbero facilmente potuto apprendere. L’ambizione della neo-lingua era, ovviamente, molto maggiore: se funzionava per una piccola cittadina nell’Europa dell’est, poteva avere valore universale. Si noti che l’esperanto non aveva l’ambizione di rimpiazzare le lingue esistenti, ma solamente di aggiungersi a loro. Da allora, l’esperanto ha avuto pochi ma ferventi accoliti in tutti i paesi, ma è stata sempre soppiantata, come lingua franca mondiale, dal francese prima e oggi dall’inglese. Altri idiomi sono diventati lingue franche in regioni del mondo: il cinese mandarino, l’hindi, lo spagnolo, il russo. L’esperanto può essere ritenuto una utopia positiva, esattamente speculare all’utopia negativa rappresentata dalla neo-lingua di Orwell: mentre lo scopo ultimo della neo-lingua era addirittura quello di impedire pensieri contrari al potere, lo scopo dell’esperanto è quello di facilitare la comunicazione tra individui di zone remote del mondo. Come l’introduzione di pesi e misure universali ha avuto lo scopo di rendere la vita economica e sociale trasparente, abbattendo le asimmetrie informative esistenti tra individui e classi sociali, così la lingua universale intende consentire a ogni persona di entrare in contatto con qualsiasi altra persona. La lingua universale è quindi la chiave per la cittadinanza cosmopolitica.

La metafora dell’esperanto serve a sostenere che la lingua per la vita politica non deve essere intesa come strumento di identità, ma di comunicazione. La politica democratica si fonda sul principio che le varie parti (siano essi i partiti politici, i gruppi etnici o gli individui) sono disposti ad accettare tre principi: l’uguaglianza tra dei membri, la partecipazione e la disposizione a non ricorrere alla violenza per affermare i propri voleri (Beetham, 1999, Bobbio, 1984). Nel momento in cui manca un medio linguistico, pre-requisito delle istituzioni e degli individui che intendono prendere parte alla vita democratica è quello di crearlo, se necessario anche artificialmente (si veda Beck, 2003).

 

 

4. Che cosa è la politica democratica?

 

Il problema linguistico rivela molti aspetti della democrazia e delle sue concezioni. Qualora si sposasse il modello “aggregativo”, ossia la concezione della democrazia che privilegia il momento dell’aggregazione delle preferenze (piuttosto che della loro formazione), il problema linguistico sarebbe molto ridimensionato. I singoli membri della comunità politica (gli elettori) si troverebbero di fronte un menù di scelte già definito. Se la comunità politica è composta da individui che parlano lingue diverse, sarebbe sufficiente e tecnicamente possibile rendere le opzioni disponibili nelle varie lingue. Non è oggi insolito trovare le istruzioni per far funzionare un elettrodomestico in 10 lingue, e finanche su un tubetto del dentifricio le istruzioni per il consumatore sono riportate in almeno quattro lingue. I programmi elettorali dei partiti politici sono in genere più dettagliati delle indicazioni riportate su un dentifricio, ma non più delle istruzioni di un elettrodomestico.

In un modello aggregativo di democrazia, una comunità politica potrebbe tranquillamente gestire le elezioni fornendo le informazioni in tutte le lingue necessarie. Sarebbe compito e interesse di ciascuna forza politica rendere accessibile il programma agli elettori nel medio linguistico più appropriato. In questo modello, agli elettori è richiesto di formulare le proprie preferenze e di controllare che la forza politica che ha vinto le elezioni si attenga al programma, mentre la loro diretta partecipazione alla vita politica è ridotta al minimo. Ci sarebbero, ovviamente, problemi linguistici per consentire ai cittadini di avere accesso all’amministrazione e ai servizi pubblici. Ma non è impossibile fornire servizi pubblici quali educazione e sanità nelle principali lingue parlate dai cittadini, come richiesto dai teorici del multi-culturalismo. In molte regioni popolate da due comunità linguistiche i funzionari pubblici sono già bi-lingui.

Ma non necessariamente i cosmopolitici ritengono che il modello aggregativo sia un’accurata descrizione di come operano effettivamente le democrazie, e ancor meno di come esse dovrebbero operare. In particolare, il progetto politico della democrazia cosmopolitica privilegia, come il multi-culturalismo, un differente modello di democrazia, che è stato definito deliberativo (Habermas, 1998), discorsivo (Dryzek, 2000) o comunicativo (Young, 2000. Per un confronto tra modello aggregativo e deliberativo, cfr. Mastropaolo, 2003). In questo modello, l’essenza della democrazia risiede nella comunicazione, ossia nella capacità di capire le ragioni degli altri e di sapere esporre le proprie. Per molti versi, i due modelli di democrazia aggregativa e deliberativa non sono avversari (come sono fin troppo spesso considerati), ma due fasi dello stesso processo democratico. Una prima fase è quella della formazione dei partiti e dei programmi politici, in cui prevale il dialogo e la persuasione, una seconda fase è quella delle scelte e dell’aggregazione delle preferenze nel corso delle elezioni, dove prevalgono le ragioni competitive delle forze politiche. Anche la vita parlamentare è contrassegnata da due fasi: nella prima c’è un contraddittorio tra forze politiche, nella seconda si vota. Perfino l’attività di governo tiene in considerazione l’opinione pubblica e il dibattito che scaturisce in essa.

Patten (2003, p. 379) sostiene che “una lingua pubblica comune non è necessaria per la democrazia deliberativa”. Questa posizione, per quanto provenga da un autore multi-culturalista, è antitetica a quella di Kymlicka che, come visto sopra, sostiene addirittura che la politica democratica possa essere solo nel vernacolare. Patten immagina la possibilità di ricorrere tecnicamente a traduttori e interpreti, ma non condivido il suo ottimismo. Più si dà importanza alla comunicazione, e più diventa importante il medio linguistico. In una assemblea legislativa nazionale è certamente possibile ricorrere a traduzioni simultanee (e ci sono già esempi in tal senso), ma più si restringe il livello della politica e più la possibilità di ricorrere a intermediari linguistici si riduce. Una democrazia “forte” (Barber, 1984) si distingue anche per procedimenti democratici più capillari e meno formalizzati: comitati di quartiere, consigli scolastici, partiti, sindacati, tutte componenti vitali della vita politica.

Se insomma si abbandona la concezione semplicemente aggregativa della democrazia, il problema linguistico emerge come un ostacolo pratico rilevante. Eppure, non credo che si possa generare una cultura democratica se le singole componenti (siano essi i quartieri, le scuole, le associazioni di base, i partiti, i sindacati, il governo locale) non sono anch’esse disposte ad accettare il principio dell’inclusione dei partecipanti, indipendentemente dalla loro capacità linguistica. Sarebbe certamente al di fuori di qualsiasi principio democratico se i vari gruppi venissero definiti sulla base di criteri religiosi, economici o culturali. Perché dovremmo considerare la creazione di confini linguistici meno atroce? Lì dove esiste un ostacolo alla partecipazione, è compito della politica democratica cercare di rimuoverlo.

Richiedere ai cittadini di fare uno sforzo per capirsi non è neutrale rispetto alla concezione della democrazia che si privilegia. Comprendere gli altri sottintende pazienza, richiede un investimento del proprio tempo e delle proprie risorse in istruzione, che potrebbero essere inutili al di fuori della sfera politica.[7] Richiedere ai cittadini di fare questo sforzo significa, per dirla con Benjamin Constant, optare per la libertà degli antichi piuttosto che per quella dei moderni, giacché si richiede ai membri della comunità di dedicare tempo ed energie per superare le barriere esistenti per la comunicazione anche se ciò fosse utile solo per la pratica democratica. Un cosmopolita, probabilmente, è incline a vederne un valore intrinseco, e non solo strumentale, nell’opportunità di conoscere una lingua in più. Ma anche limitandosi all’aspetto strumentale, trovo sorprendente che si dia oggi tanta importanza ad alcuni aspetti caratteristici della libertà degli antichi (la solidarietà all’interno della comunità e, più in generale, il valore della partecipazione alla vita collettiva), mentre sono disposti a dare così poco peso al primo aspetto che caratterizza una comunità: la volontà di capire chi è diverso.

 

 

5. Opzioni politiche: un confronto tra multi-culturalisti e cosmopolitici

Forse il modo migliore di comprendere le differenze tra la posizione multi-culturalista e quella cosmopolitica è affrontare alcuni casi specifici. In questa sezione discuto quattro casi paradigmatici: una scuola di quartiere, una città multi-linguistica, una grande nazione multi-etnica e un parlamento sovra-nazionale. Ovviamente, si ritrovano differenze significative sia all’interno dei teorici multi-culturalisti (in particolare, tra Kymlicka, 1999, e Parekh, 2002) che di quelli cosmopolitici (in particolare, tra i cosmopolitici etici e quelli istituzionali). Non ambisco a rappresentare fedelmente tutte le posizioni. Ma credo che sia ugualmente utile delineare dei casi paradigmatici, anche a prezzo di evidenti forzature, per identificare le differenze tra i due approcci.

Una scuola pubblica in California. In una scuola pubblica in un distretto di Pasadena, California, tradizionalmente dominata da alunni inglesi, le tendenze demografiche e le ondate migratorie rendono sempre più consistente il numero degli alunni Hispanicos. Poiché tra gli Anglos c’è stato un certo declino demografico, la scuola riesce ad inserire agevolmente anche i nuovi alunni Hispanicos, e anzi la loro presenza impedisce la chiusura per carenza di alunni. Eppure, le due comunità sono diverse per livello di reddito, cultura, religione e lingua. Gli alunni Hispanicos non parlano bene l’inglese, e i loro genitori lo parlano ancora peggio. Le riunioni dei Consigli scolastici finiscono in un pandemonio, con gli Anglos che protestano perché i propri figli iniziano a fare frequenti errori di ortografia, e gli Hispanicos perché i pasti sono serviti freddi. Alla fine di una concitata riunione, un padre Hispanico ha addirittura dato uno schiaffone ad un padre Anglo per una banale incomprensione linguistica.

Il preside, uomo dal fine intuito, percepisce che da parte degli Anglos c’è il timore di smarrire l’identità del proprio quartiere. In un corridoio, ha sentito una genitrice Anglo affermare: “non solo vengono a vivere qui, ma pure prolificano come conigli”. Anche gli Hispanicos hanno problemi d’identità, e sono preoccupati per il fatto che i loro figli ricevono voti più bassi degli altri. Perfino nell’attività sportiva gli Hispanicos sono meno bravi degli Anglos, forse perché il gioco principale è il rugby. Diversi genitori Hispanicos sono nati e cresciuti negli Stati Uniti, ma non padroneggiano bene l’inglese. Poiché molti fanno le pulizie nelle case degli Anglos, oggi aspirano a far vivere i propri figli in condizioni tali da non perpetuare la divisione di classe fondata sulle diverse etnie.

Il preside convoca un ricercatore multi-culturalista chiedendogli di studiare il problema e proporre una soluzione. Dopo qualche settimana, lo studioso mostra un prospetto nel quale divide gli alunni in due sezioni diverse, la A e la H. Con un ingegnoso programma di ristrutturazione, mostra che è possibile provvedere all’istruzione in inglese nella sezione A e in spagnolo nella sezione H. I genitori sono liberi di scegliere la sezione per i propri figli, anche se ci si aspetta che gli Anglos li iscrivano nella A e gli Hispanicos nella H. Oltretutto, il progetto rende chiaro che, una volta scelta la sezione, non si faranno sconti agli alunni per insufficienze linguistiche. Senza aumento dei costi, il progetto rende possibile anche l’insegnamento dell’altra lingua in tutte e due le sezioni, consentendo agli Anglos di apprendere almeno i rudimenti di spagnolo e agli Hispanicos di studiare l’inglese come seconda lingua. Il multi-culturalista nota inoltre che lo sport è un elemento centrale dell’identità di gruppo, e sarebbe errato impedire agli Hispanicos di praticare quello che amano di più e nel quale riescono meglio. Di conseguenza, il progetto pianifica attività sportive diverse: mentre nella sezione A si pratica il rugby, nella H viene introdotto il calcio.

Il preside è però perplesso. Si chiede se sia conforme alla Costituzione americana, e sebbene la California abbia goduto di deroghe costituzionali, decide di affidare lo stesso incarico ad un ricercatore cosmopolitico. In pochi giorni, il cosmopolitico presenta il suo piano, che riporta sul frontespizio una citazione da Thomas Pogge (2003, p. 118): “la migliore educazione per ogni bambino è l’educazione che è la migliore per questo bambino”. Il piano prevede che tutti i bambini debbano avere la stessa istruzione in inglese, poiché è la lingua dominante nel paese in cui i bambini si troveranno a vivere e addirittura la lingua franca dominante nel mondo. Il piano riporta varie tabelle nelle quali si mostra che i cittadini americani con una buona conoscenza dell’inglese: a) hanno redditi più elevati, b) minore rischio di rimanere disoccupati, c) minore rischio di essere incarcerati, d) speranze di vita più elevate. Una ulteriore tabella mostra come l’inglese si sta espandendo a macchia d’olio in tutti i continenti come seconda lingua. E si chiede provocatoriamente se sia compito della scuola pubblica condannare, almeno sotto il profilo delle probabilità statistiche, un alunno a guadagnare meno, a rischiare di rimanere senza lavoro, a rischiare la prigione e addirittura a vivere meno solo per preservare la lingua della propria comunità linguistica. Per quanto riguarda l’attività sportiva, lo studio propone di passare al baseball che suscita ardori sia nei Carabi sia nel Nord-americana.

Non pago di avere dimostrato in modo inoppugnabile i vantaggi dell’istruzione in inglese per il benessere dei giovani allievi, il cosmopolita suggerisce di introdurre corsi obbligatori di Lingua e cultura spagnola per tutti gli alunni e suggerisce come temi costitutivi di una identità comune il mito di Zorro, Ernest Hemingway e Isabel Allende. Avere sezioni uniche consente un certo risparmio, che propone di utilizzare per corsi serali di inglese per i genitori degli Hispanicos. Prevenendo una facile obiezione da parte degli Anglos, ossia che i genitori dell’altro gruppo etnico acquisirebbero più risorse, il cosmopolita propone di organizzare, per i genitori Anglos, corsi serali di Salsa e di altri balli latini. Suggerisce inoltre di istituire un’associazione turistica il cui scopo sociale è visitare le isole dei Carabi e il Centro-America. Letto diligentemente il progetto, il preside continua ad essere perplesso.

 

Il problema di Byelostok. Un caso emblematico è quello della città natale di Zamenhof, Byelostok. Ho già detto che, nella seconda metà dell’Ottocento, nella città c’erano quattro comunità linguistiche: i polacchi (3000 abitanti), i russi (4000 abitanti), i tedeschi (5000 abitanti) e gli ebrei (18000 abitanti). Ciò creava molti problemi pratici nel commercio, nell’istruzione e in quella rudimentale vita pubblica che il regime zarista consentiva in un territorio di relativa recente conquista. La comunità linguistica più popolosa, quella ebraica, non poteva fare affidamento su una ampia produzione scritta nella lingua vernacolare, lo yiddish. Due altre comunità linguistiche, quella tedesca e quella russa, si avvalevano invece del consolidamento della lingua e della cultura dei due grandi stati limitrofi.

Un multi-culturalista, preso atto della differenza, avrebbe probabilmente suggerito di creare quattro consigli etnici, ognuno dei quali dotato di una larga autonomia nell’erogazione di servizi quali l’istruzione e la sanità. Avrebbe inoltre istituito una “Camera di compensazione” per facilitare i cittadini a scambiare, se lo desiderano, le proprie abitazioni in maniera di rendere la città divisibile in quattro quartieri linguisticamente omogenei. Ciò avrebbe notevolmente ridotto i problemi delle incomprensioni linguistiche nel commercio e avrebbe facilitato impartire l’istruzione nelle lingue delle quattro comunità. Abbiamo visto, invece, quale fu l’ingegnosa soluzione di Zamenhof, un vero campione del cosmopolitismo: creare una nuova lingua artificiale, l’esperanto, che mettesse le varie comunità sullo stesso piano, e addirittura potesse consentire loro di comunicare con tutti i cittadini del mondo. Il fatto che la soluzione fosse impraticabile non deve far ignorare la sua grandiosità: da un problema locale nasceva la spinta per una lingua universale. Una soluzione meno ingegnosa ma forse destinata a dare frutti più tangibili sarebbe stata quella di giungere ad un bi-linguismo per l’istruzione e la comunicazione pubblica tra la principale lingua slava (il russo) e la lingua tedesca (che ha molte similitudini con lo yiddish), consentendo e sviluppando l’uso privato delle altre lingue vernacolari. Probabilmente Zamenhof sarebbe stato d’accordo con la proposta di Van Parijs (2003, p. 167), secondo la quale le comunità linguistiche cui è richiesto di studiare la lingua dell’altra comunità, in questo caso gli ebrei e i polacchi, avrebbero avuto diritto a compensazioni materiali da parte della comunità cui non è richiesto di studiare altre lingue.[8]

 

Il caso indiano. L’India è, dopo la Cina, il secondo paese in termini di popolazione, e accentra circa un sesto degli abitanti del mondo. L’India si distingue per ospitare una infinità di etnie e lingue diverse. Eppure, dopo l’indipendenza, l’India è riuscita a costituire una democrazia parlamentare che è, nell’ambito dei paesi in via di sviluppo, un caso di relativo successo (Kohli, 2001). Questo è stato possibile anche grazie ad un Parlamento nazionale i cui membri sono eletti in tutti gli stati federali. Il miglior approccio al problema linguistico si è dimostrato essere il pragmatismo, accompagnato a una buona dose di flessibilità e di tolleranza. I tentativi di creare una lingua unitaria come mezzo per rafforzare l’identità nazionale sono finora falliti, al contrario di quanto è invece successo, ad esempio, in Italia. Il desiderio di creare una identità indiana sulla base di una lingua comune diversa da quella dei vecchi colonizzatori inglesi, sostenuto tra l’altro dallo stesso Mohandas Gandhi, si è dimostrato più un fattore di divisione che di unione. Al fine di risolvere i conflitti linguistici, si è così stabilito di consentire la comunicazione tra il governo centrale e i singoli stati sia in hindi che in inglese. Il paese ha, allo stato attuale, ben 18 lingue ufficiali, un numero assai ristretto rispetto alle 1650 lingue parlate. Si è così creato un sistema nel quale le lingue vernacolari sono in uso a livello locale, una delle lingue ufficiali è utilizzata per la vita politica dei singoli stati, mentre le lingue di comunicazione per la politica nazionale sono diventate, di fatto, l’hindi e l’inglese (Chandholke, 2002).

Un multi-culturalista noterebbe subito che la democrazia indiana è limitata dal fatto che i membri delle minoranze linguistiche non hanno la possibilità di controllare gli atti del Parlamento e del Governo. Nello stesso Parlamento non c’è alcuna certezza che i membri delle minoranze linguistiche si capiscano a vicenda per la varietà di accenti. Per un multi-culturalista sarebbe forse stato più opportuno se, nel 1947, l’India fosse stata separata in 18 stati indipendenti piuttosto che in due soli. Ciò avrebbe consentito a ciascuna comunità di avere una maggiore partecipazione politica nelle lingue vernacolari e, per quanto neppure 18 stati indipendenti sarebbero stati linguisticamente omogenei, sarebbe stato possibile tutelare le minoranze linguistiche con le politiche che i multi-culturalisti sostengono per paesi quali il Canada o la Spagna.

Un cosmopolita, al contrario, riterrebbe un gran vantaggio per le popolazioni di quell’area geografica che, a seguito della colonizzazione inglese, si sia formata una grande nazione. La formazione di uno stato federale è stata probabilmente la migliore protezione per le varie minoranze etniche, religiose e linguistiche. In sua assenza, nella penisola indiana si sarebbero probabilmente scatenati conflitti altrettanto sanguinosi di quelli che si sono verificati nel corso della suddivisione tra Unione Indiana e Pakistan del 1947, né è da escludere che si sarebbero potuti generare conflitti inter-statali analoghi a quelli che hanno dominato la vita politica africana degli ultimi sessant’anni. Il fatto che tutti si siano potuti considerare indiani indipendentemente dalla lingua ha ridotto la violenza politica, e il fatto che a ciascun individuo sia stato consentito di parlare la propria lingua vernacolare ha impedito traumatici cambiamenti di identità. E’ stato casuale che la lingua dei colonizzatori fosse l’inglese (piuttosto che l’olandese o il portoghese), ma ciò ha dato all’India un vantaggio notevole, perché il paese ha avuto un accesso diretto all’idioma contemporaneo dominante. Per quanto – finora – ciò abbia favorito molto di più le élites che la maggioranza della popolazione, appropriate politiche per l’educazione possono rendere l’inglese un vantaggio competitivo notevole per lo sviluppo della società indiana.

Guardando al futuro, probabilmente un multi-culturalista punterebbe ad aumentare le lingue ufficiali, ad aumentare l’autonomia politica locale e l’insegnamento delle varie lingue vernacolari. Ciò porterebbe ad una maggiore conservazione delle lingue locali e ad una più difficile integrazione economica, sociale e politica, tanto a livello nazionale che a livello internazionale. Un cosmopolita, al contrario, tenterebbe di investire di più nell’istruzione in ’inglese accanto a quello delle lingue locali, in maniera da rendere l’inglese la lingua franca sia intra-nazionale che internazionale. Le conseguenze sarebbero probabilmente opposte a quanto auspicato dai multi-culturalisti: è prevedibile che si perderebbero molte delle lingue locali, ma l’India ne guadagnerebbe in termini di integrazione sia nazionale che internazionale.

Parlamento europeo. Il Parlamento Europeo ha attualmente 11 lingue ufficiali. Finora, le lingue ufficiali sono aumentate con l’aumento degli stati membri dell’Unione Europea. Le lingue ufficiali, di fatto, coincidono con gli stati. Non esistono lingue ufficiali per comunità linguistiche sub-statali (la rivendicazione più significativa è quella del catalano). I membri del Parlamento si avvalgono della traduzione simultanea, e i documenti sono tradotti nelle lingue ufficiali. Con l’aumentare delle lingue ufficiali, è anche diventata più complessa la procedura di traduzione: esistono attualmente 11*10=110 combinazioni linguistiche (in entrata e in uscita) possibili, e trovare interpreti capaci di tradurre, ad esempio, dal portoghese allo svedese o dal greco al finlandese non è sempre agevole. Si ricorre così alla doppia traduzione (ad esempio, dal portoghese al francese e dal francese al finlandese). Neppure un così vasto menù linguistico riesce tuttavia ad accomodare tutte le lingue europee, e accade – anche se raramente – che i parlamentari di minoranze linguistiche parlino la propria lingua materna.[9]

Il problema diventerà ancora più rilevante con l’allargamento del 2004, quando le lingue ufficiali diventeranno 20 e le possibili combinazioni linguistiche addirittura 20*19=380.[10] Dei quasi 5.000 dipendenti del Parlamento Europeo, 434 sono traduttori e 238 interpreti: la moltiplicazione delle lingue potrebbe richiedere la loro duplicazione. In tale situazione, è comprensibile che si ponga il problema di ridurre le lingue ufficiali del Parlamento europeo, anche se si tratta di una questione politicamente spinosa (si veda Mamadouh, 2002). Il vantaggio è di consentire un più efficace dibattito, lo svantaggio è di limitare, di fatto se non di diritto, l’elettorato passivo a quelle élites che parlano le lingue straniere.

I deputati possono esprimersi in qualsiasi lingua ufficiale (Art. 117 del regolamento del Parlamento Europeo), anche se generalmente parlano nella lingua del proprio paese. Willy Brandt fu uno dei primi membri del Parlamento Europeo a pronunciare un discorso al Parlamento in una lingua diversa da quella materna, parlando in inglese piuttosto che in tedesco.[11] La sua scelta fu giustificata dal fatto che il numero dei membri che capiscono l’inglese è sostanzialmente superiore a quello di coloro che capiscono il tedesco. Tale scelta fu accolta con calorosi applausi e numerosi fischi. I multi-culturalisti lo avrebbero probabilmente fischiato, perché risultava incomprensibile agli elettori del proprio collegio, che comunque hanno il diritto di esercitare un controllo sul deputato da loro eletto. Inoltre, imponeva ai suoi colleghi tedeschi che non capivano l’inglese (magari perché non appartenenti alle élites) di ascoltare il discorso di un connazionale in traduzione. I cosmopolitici lo avrebbero applaudito con convinzione perché riduceva la distanza linguistica tra i membri dello stesso Parlamento, e perché si faceva promotore di una lingua comune per la politica europea.

Oggi ci sono proposte per ridurre le lingue del Parlamento a 2, 3 o 4 e anche gli organi del Parlamento si sono posti il problema di limitare l’uso estensivo degli interpreti e delle traduzioni.[12] I multi-culturalisti sono probabilmente ostili a queste proposte, giacché verrebbe ridotto il numero di candidati effettivamente eleggibili (potrebbero svolgere il proprio ruolo di parlamentari solamente quei cittadini con una buona conoscenza di almeno una lingua ufficiale). Inoltre, nonostante tutti i documenti del Parlamento continuerebbero ad essere disponibili nelle 20 lingue ufficiali, c’è sempre il pericolo che un’Assemblea che lavora in poche lingue si distanzi dall’elettorato e si trasformi in una oligarchia.

I cosmopolitici, al contrario, riterrebbero che la comunicazione in una o poche lingue renderebbe il dibattito parlamentare più autentico e diretto. Suggerirebbero di lasciare due sole lingue ufficiali, l’inglese e il francese, e per mettere tutti i deputati sullo stesso piano, richiederebbero agli inglesi di parlare in francese, e ai francesi di parlare in inglese. Farebbero presente che i Parlamentari europei, anche se eletti in un paese,[13] devono rispondere a tutta la popolazione europea e non solo al proprio collegio. Inoltre, la possibilità stessa di svolgere validamente il proprio lavoro in un’assemblea legislativa dipende dalla possibilità di interloquire, anche informalmente, con i propri colleghi, e per far questo è comunque necessaria una competenza nelle lingue più diffuse. A meno di non far scortare ciascun deputato da 11 o 20 interpreti, sarebbe necessario che i membri del Parlamento siano in grado di comunicare tra loro in una lingua comune. I cosmopolitici preferirebbero, insomma, una lingua impoverita ma direttamente comprensibile ad una miriade di lingue più colorite ma non accessibili.

E’ non solo triste, ma anche inutile, un Parlamento in cui ogni deputato parla la sua lingua vernacolare, sapendo che gli altri membri non lo capiscono. L’etimologia stessa di Parlamento dice qual è lo scopo delle Assemblee legislative: parlare, perché si assume che chi parla sia anche disposto ad ascoltare. Senza la disposizione ad ascoltare, non è possibile costruire alcuna politica democratica. Un Parlamento in cui ogni membro parli una lingua incomprensibile agli altri non è solo ridicolo, è inutile.

 

 

6. Per un cosmopolitismo linguistico

 

Le opzioni normative implicite nella visione cosmopolitica si basano, in fondo, su una più ampia considerazione di filosofia della storia di derivazione illuministica, ossia che il progresso del genere umano, per dirla con Condorcet, si fonda anche sulla possibilità di avvicinare i popoli della terra, di far conoscere le loro culture e, addirittura, di consentire loro di selezionare i modelli più progrediti. Il cosmopolitismo contempla due attitudini diverse e, in un certo senso, contraddittorie. Dal punto di vista culturale, il cosmopolitismo è attirato da quanto è diverso, e la perdita di questa diversità è percepita come uno svantaggio per tutto il genere umano. Per conoscere usi e costumi diversi, insomma, bisogna che il diverso esista e che quindi sia preservato. Ma dal punto di vista politico, il cosmopolitismo ha una innata fiducia nel progresso di stampo illuminista (si veda Barry, 2001, pp. 9 sgg.), fondata sull’uguaglianza di ogni essere umano e, di conseguenza, sull’universalità di alcuni diritti.

Applicando questa filosofia generale al campo linguistico, la posizione cosmopolitica si fonda su un assunto che è opportuno esplicitare: nulla impedisce agli esseri umani di padroneggiare perfettamente due o più lingue.[14] Le recenti ricerche linguistiche dimostrano chiaramente che non esiste alcun handicap nel far apprendere ai bambini due lingue (Baker e Prys Jones, 1998; l’argomento è sostenuto anche, nel fronte multi-culturalista, da May, 2003), e interi paesi, tra quelli più civilizzati, da anni mettono in atto programmi educativi obbligatori che consentono agli alunni di apprendere correntemente, oltre alla propria lingua materna, anche l’inglese. Non necessariamente questo va a discapito della lingua vernacolare, la quale può essere meglio compresa nel proprio valore culturale (come espressione della varietà del genere umano) proprio da individui che parlano più di una lingua. I poliglotti sono in grado di apprezzare il valore della diversità linguistica molto meglio degli analfabeti o di coloro che parlano una sola lingua. La scelta tra la lingua vernacolare e la lingua nazionale viene troppo spesso presentata come ineluttabile (si veda, ad esempio, Patten, 2003, p. 381): se la prospettiva cosmopolitica sostiene una lingua pubblica comune è perché ritiene che sia possibile conservarla accanto ad una o più lingue locali.

Padroneggiare una lingua universale non significa disfarsi della lingua della propria etnia. Una soluzione più realistica dell’esperanto l’aveva già indicata Aldous Huxley nel romanzo L’Isola (1962), una utopia positiva nella quale viene descritta una piccola comunità del Pacifico, l’immaginaria isola proibita di Pala, altamente progredita e altrettanto radicata nelle proprie tradizioni. Questa comunità preserva la propria lingua locale, ma tutti i membri conoscono l’inglese, che consente loro l’accesso alla tecnologia, all’informazione e alla cultura occidentale. Nel mondo reale, i paesi che sono ai primi posti nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano – Norvegia, Svezia, Olanda – si avvicinano molto all’ideale di Huxley.

In un pianeta in cui un terzo della popolazione è ancora analfabeta è senz’altro una fuga in avanti pensare ad istituzionalizzare una sorta di bi-linguismo, che consentirebbe di avere una lingua franca internazionale sia all’interno che all’esterno dello stato. Ma la filosofia politica ha una utilità se lavora per il futuro, non per il passato. C’è da rimanere sorpresi dal sapere che due terzi degli abitanti del pianeta sono già oggi bilingui (Baker e Prys Jones, 1998). Ciò non avvicina ancora i popoli della terra perché manca ancora una lingua di comunicazione: in una parola, manca la lingua unica parlata da tutti come seconda o terza lingua. Ma non sembra insomma impossibile che il multi-linguismo dia la possibilità di preservare la diversità linguistica senza dover sacrificare la possibilità degli esseri umani di praticare la politica democratica; nel corso di due o tre generazioni, si potrebbe trovare un medio linguistico universale. Piuttosto che scegliere oggi tra vernacolare e esperanto sarebbe forse più utile sostenere investimenti in educazione tali che consentano agli individui di aumentare le proprie competenze linguistiche.

In India e in Europa è gia visibile il multi-linguismo in azione (cfr. Laitin, 1997). Gli inglesi in Europa e gli hindi in India sono tra i privilegiati che possono permettersi di parlare una sola lingua, molti altri, ne devono parlare almeno due (l’inglese come lingua franca e la propria lingua vernacolare), altri ancora che ne parlano già tre (come i catalani, che avrebbero bisogno di parlare lo spagnolo come lingua del loro stato, e l’inglese come lingua internazionale). Non intendo sostenere che l’accesso linguistico sia aperto a tutti: ancora oggi, come giustamente nota Kymlicka, le élites sono avvantaggiate e godono, in un mondo globalizzato, anche del privilegio linguistico. E’ fin troppo facile rendere una società più ugualitaria rendendo i poliglotti analfabeti, ma una politica sociale illuminata dovrebbe tentare di rendere gli analfabeti poliglotti.

Ringraziamenti

 

Desidero ringraziare Paola Ferretti, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Simone Roberti e Giorgio Ruffolo per le informazioni e i suggerimenti su una precedente stesura.

 

 

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[1] Flaubert (1869, p. 274). Con disincantata ironia, Flaubert ci racconta anche il dibattito che ne scaturì:

“’No, niente latino!’ disse l’architetto,

‘Perché no?’ disse un insegnante.

E questi due signori impegnarono una discussione, cui intervenivano altri, ciascuno gettando la sua per stupire; e diventò presto talmente fastidiosa, che molti si allontanavano”.

[2] Mi riferisco, ovviamente, all’idea che uno stato liberale dovrebbe non parteggiare relativamente agli aspetti della vita privata dei propri cittadini, inclusi la religione che praticano e la lingua che parlano. Cfr. Patten, 2003. Se lo stato liberale, come sostenuto da Kymlicka (1999), abbia mai promesso una neutralità relativamente alla lingua è negato da Chambers (2003).

[3] Si pensi, ad esempio, agli accordi presi dalle organizzazioni inter-governative sugli aspetti militari: spesso, i governi democratici ritengono di non dover informare neppure i Parlamenti delle decisioni prese.

[4] E’ stato addirittura creato un Gruppo di interpreti volontari, Babels, per facilitare i lavori dei Social Forums. Cfr. http://www.babels.org/

[5] Lo stesso vale forse anche per una comunità mono-religiosa, o con uguali livelli di istruzione, anche se non affronto qui questi problemi. Mi limito solo a formulare una velenosa domanda retorica: dovremmo costruire comunità politiche mono-religiose per cogliere i vantaggi che ciò potrebbe offrire alla pratica democratica? Qui non stiamo parlando più di neutralità liberale (Kymlicka, 1999; e Patten, 2003; hanno convincentemente dimostrato che lo stato può essere neutrale per quanto riguarda la religione, ma non lo può essere per quanto riguarda la lingua), bensì dei confini stessi della comunità politica.

[6] Riferimenti paradigmatici sulla scomparsa delle vecchie lingue sono Nettle e Romaine (2000) e Crystal (2000).

[7] Penso ad esempio a quei (pochi) berlinesi che hanno imparato rudimenti di turco per comunicare con una parte essenziale della popolazione cittadina.

[8] La proposta di Van Parijs potrebbe essere praticata almeno nella comunità accademica, dove l’inglese si è affermato inequivocabilmente come lingua franca e dove le riviste accademiche più diffuse, lette e citate sono quelle anglo-americane. Ciò provoca un oggettivo vantaggio ai madre-lingua, e un notevole svantaggio a tutti gli altri. Non sarebbe insensato, a titolo di compensazione, chiedere ai privilegiati colleghi di madre-lingua inglese di correggere gli strafalcioni linguistici dei loro colleghi di altri paesi.

[9] Ad esempio, nella seduta del 30 ottobre 1987, dedicata a discutere la Resolution on the languages and cultures of regional and ethnic minorities in the European Community (Doc. A2-150/87), tre deputati spagnoli hanno parlato, rispettivamente, in catalano, asturiano e basco, fornendo agli interpreti il testo scritto in spagnolo.

[10] Già oggi, il sito ufficiale del Parlamento Europeo fornisce tutte le informazioni in 20 lingue. Cfr. http://www.europarl.eu.int/home

[11] Per essere precisi, l’euro-deputato italiano di estrema sinistra Mario Capanna pronunciò provocatoriamente un suo discorso in latino nella seduta del 13 novembre 1979, forse ignaro della proposta avanzata 131 anni prima da Michele Evaristo Nepomuceno Vincent, spargendo il panico nelle cabine degli interpreti. Uno dei pochi che comprese perfettamente il suo discorso fu il Parlamentare europeo Otto d’Asburgo, discendente diretto della Casa reale dell’Impero Austro-ungarico, ma membro eletto nelle liste della partito cattolico di destra CSU nel Collegio Bavarese. Avendo la propria famiglia perso il Lombardo-Veneto nel 1861, il suo italiano era alquanto arrugginito, e si complimentò con il collega in latino. E’ stato forse uno degli ultimi casi in cui le élites di due paesi, per quanto di orientamenti politici opposti, hanno usato il latino.

[12] Si veda, ad esempio il Rapporto su Preparing for the Parliament of the Enlarged European Union (DT\500857EN.doc), 24 giugno 2003, in particolare la sezione sul “Controlled Full Multilinguism”.

[13] Il Parlamento europeo permette a tutti i cittadini europei di candidarsi in qualsiasi Collegio e non necessariamente in quello della propria nazionalità. I casi in cui di partiti hanno candidato cittadini di altri paesi sono ancora pochi.

[14] La possibilità di del multi-linguismo è sostenuta con forza anche da un multi-culturalista come May (2003). Per quanto riguarda la tematica dell’istruzione, e al di là del fervore polemico che ha alimentato finora il dibattito, sembra di poter dire che i cosmopolitici desiderano che l’istruzione sia impartita nella lingua della maggioranza, e che la lingua della minoranza sia impartita come seconda lingua, mentre i multi-culturalisti desiderano il contrario, ossia che la lingua principale sia quella di ciascuna comunità, mentre la lingua dominante sia impartita come seconda lingua.