I
I termini del problema...
1. - Le ferree leggi della sociolinguistica e gl'insegnamenti della storia dicono concordemente che la lingua egemone di un Paese o di un gruppo di Paesi egemoni riduce a rango di dialetti, e poi immancabilmente distrugge, le lingue dominate. Ma questa legge -pur confermata senza eccezioni da molteplici esempi storici - sembra ignorata dalla maggioranza degli studiosi, e in particolare da quelli europei (e intenzionalmente, e colpevolmente, sottaciuta dai glottodidatti, che non possono non conoscerla).
Il fenomeno, è stato notato con ragione - in particolare da Tazio Carlevaro, in un saggio che si citerà alla n. 10 - avviene con progressione continua, ma impercettibile, e resta perciò largamente inavvertito; e chi - confusamente e male - lo avverte, suggerisce poi soluzioni irrealizzabili e inaccettabili - come fra un momento mostreremo -, quali il bilinguismo o plurilinguismo di massa. (Sono orientati in tale errata direzione non solo il Consiglio d'Europa e l'Unione Europea, ma anche linguisti del valore di Claude Hagège - che pur vede lucidamente il rischio, sopra descritto, di sparizione in radice delle lingue europee entro un secolo, a beneficio dell'inglese -, e con lui moltissimi altri(l).
2. - Invero la soluzione del bi- o pluri-linguismo - certo da raccomandare per le élites - è irrealizzabile per le masse, giacché i più o non sono sufficientemente motivati (si pensi che anche all'interno dell'Unione Europea sono molti milioni gli analfabeti e, soprattutto, i semianalfabeti, senz'alcun interesse se non per gli aspetti più frivoli della televisione); o non hanno attitudini adeguate, giacché queste variano da individuo a individuo, per cui vi sono persone, pur d'intelligenza più che normale, che non impareranno mai una seconda lingua viva(2).
Decisiva è poi, in ogni caso, la motivazione: ed è assurdo illudersi che ciò che avviene, almeno in qualche proporzione, in zone mistilingui - gli abitanti delle quali sono, per dir così, «costretti» ad esser poliglotti - possa ripetersi in zone (di gran lunga le più) rigorosamente monoglotte. Anche qui l'eccezione conferma la regola.
La soluzione del multilinguismo, poi, oltre che irrealizzabile, è anche inaccettabile, perché un mondo sempre più unito ha bisogno di una lingua franca unica in tutti i campi: dai più elevati (la «trasparenza» della comunicazione scientifica) ai più modesti (il turismo), passando per tutti i livelli intermedi. Anche per questo il multilinguismo è destinato a fallire, e ad aprir la strada alla
progressiva, e sempre più rapida, affermazione dell'inglese: che non ha, hic et nunc, alternative, finché durerà l'attuale squilibrio di potenza - economico, politico, militare, scientifico - a favore dei Paesi anglo-parlanti, e in particolare degli Stati Uniti.
3. - Tale dilagare dell'inglese si realizza tanto più facilmente, grazie alla «razionalizzazione» (tra virgolette) di tale fenomeno, attuata tramite l'ideologia, largamente diffusa, che afferma il carattere addirittura «provvidenziale» di questa lingua per risolver il problema della Babele universale: una vera «Pentecoste», definisce addirittura l'inglese il più impudente dei difensori di questa ideologia, George Steiner(3).
E - quel che è assai più grave - sempre più numerosi sono, anche al di fuori del mondo anglo-parlante, coloro - soprattutto, ma non solo, incompetenti - che accettano ormai senza discutere («introiettano», direbbe uno psicoanalista) quest'assurda ideologia «alla Steiner»: ad es. letterati e scrittori che parlano a ruota libera su argomenti intorno ai quali sono enciclopedicamente incompetenti(4); ma anche studiosi informati come lo Hubler(5). E sempre più rari sono, contemporaneamente, coloro che avvertono quanto grande sia il cambiamento, da mezzo secolo a questa parte, a svantaggio delle loro lingue(6).
II
... e i rischi della situazione presente
4. - Tuttavia - per quanto quell'assurda ideologia cominci ad esser sempre più fatta propria anche da studiosi di lingue diverse dall'inglese (e in modo tutto particolare dai glottodidatti(7), e l'ignoranza del fenomeno «glottofagico», descritto nelle pagine precedenti, continui ad esser assai diffusa - cominciano ciò nonostante a manifestarsi sempre più numerose eccezioni, ad opera di studiosi che rilevano come la gravità del male non stia tanto nel progressivo diffondersi di espressioni inglesi sempre più numerose e sempre meno traducibili (il che, alla lunga, avrà già un non indifferente effetto di disturbo e corruzione); ma nell'affermazione sempre più esclusiva dell'inglese nel campo dell'alta cultura, per cui, specie nel settore delle scienze non umanistiche, che i tedeschi chiamano Naturwissenschaften (come la matematica o la medicina), ma non solo in queste (anche, ad es. nella politologia, nella sociologia, ecc.), la comunicazione avviene sempre più in inglese; quasi solo in inglese si pubblicano le principali riviste specialistiche; in inglese si cominciano anche ad impartire le lezioni universitarie e si consiglia agli studenti di scriver i loro lavori accademici; mentre, al capo opposto, è ancora l'inglese che si comincia ad insegnare ovunque come prima lingua straniera, e ovunque già fin dalle scuole elementari. 5. - È da questo complesso di fattori che nasce un rischio, già in atto ormai da almeno cinquant'anni, di estinzione in radice delle lingue europee e mondiali, a beneficio di una squallida anglolalia universale, destinata ad attuare una vera e propria «Cernobyl culturale», giacché con le lingue spariranno anche le culture di cui quelle lingue sono indispensabili portatrici.
Fino a qualche anno addietro erano, ad avvertire il pericolo, soprattutto studiosi aventi come lingue materne quelle, com'è ovvio, più immediatamente minacciate, di popoli e Stati meno popolosi(8) (e, prima ancora, esso era quasi solo percepito dai rappresentanti di etnie e minoranze senza Stato, i cui idiomi sono sempre più soffocati e ridotti al rango di dialetti -anticamera dell'estinzione - dalla lingua ufficiale dello Stato in cui sono inclusi)(9). Oggi però il rischio è avvertito anche da studiosi e uomini di cultura - e non solo linguisti -appartenenti agli Stati europei più popolosi e con lingue di grandi tradizioni letterarie, come il francese, il tedesco, l'italiano, lo spagnolo (anche se poi quasi nessuno di loro sa indicare
- proprio come Hagège - una soluzione che abbia un minimo di razionalità logica e di realizzabilità pratica). Anzi, il rischio è avvertito dagli stessi esperantisti, che temono con ragione una rapida fine anche per la lingua di Zamenhof(10).
Particolarmente numerosi sono - fra i rappresentanti delle maggiori lingue vive europee, i quali si rendono conto, più o meno confusamente, della sorte a cui vanno incontro le loro culture
- quelli tedeschi, cominciando da due autori che già quasi dieci anni addietro avevano messo in guardia contro la minaccia incombente dell'inglese( 11).
Dopo di essi occorre menzionare come particolarmente importante Ulrich Ammon(12), il quale vede con chiarezza che a lungo andare l'uso esclusivo dell'inglese nell'insegnamento superiore, privando a poco a poco la lingua tedesca della terminologia scientifica, e in genere del linguaggio della cultura, potrà portare alla totale Auflösung der deutschen Nation. Quando si pensa, egli dice, che l'opera più utilizzata dalle biblioteche statunitensi per l'acquisto di libri, opera dovuta allo Sheely(13), cita pochissimi autori tedeschi perfino alla voce «Luteranesimo», ci si rende conto del punto a cui sono giunte le cose (anche se poi l'Ammon, inconseguentemente, minimizza il pericolo: esagerato, a suo avviso, dagli adepti della cosiddetta teoria della relatività linguistica, vuoi nella versione humboldtiana vuoi in quella più recente formulata da Whorf e Shapir(14).
Sono questi, ad ogni modo, insieme al Grosse, i quasi unici autori tedeschi a mia conoscenza in grado di «pensare diacronicamente», cioè di rendersi conto non solo della situazione presente, ma delle modifiche profonde che essa è destinata a determinare negli anni a venire, anche se lente e impercettibili, e perciò, è bene ripeterlo, tanto più insidiose e più difficilmente ostacolabili. E ad essi deve andare unita la menzione di un autore che formula previsioni altrettanto negative per l'olandese: destinato, egli dice, a esser meno importante dell'inglese, a partire dalla metà del secolo appena iniziato, anche all'interno degli stessi Paesi Bassi(15). Gli altri autori tedeschi, invece, che si preoccupano del futuro della loro lingua - e sono numerosi - pur rendendosi conto del problema, ignorano o minimizzano il rischio di cui abbiamo parlato: sì che basterà segnalarli in nota(16).
6. - Non mancano tuttavia altri autori che rilevano lucidamente come l'effetto distruttivo dell'inglese su lingue e culture non possa non andar congiunto con un analogo effetto di egemonia non solo culturale, ma anche economica, scientifica, politica. Già un qualche barlume di tale consapevolezza è presente nello
Swales(17), il quale constata che l'avanzare dell'inglese già oggi distrugge i «registri specializzati» delle altre lingue, con conseguenze che vanno molto oltre questi settori e riducono le capacità di una lingua anche in campi molto lontani, come quelli letterario e artistico. Ma l'autore di gran lunga più completo - e più radicale - nel denunziare le conseguenze della glottofagia esercitata dall'inglese non solo nel campo culturale (e non esclusivamente linguistico), ma anche e soprattutto in quello politico - con il progressivo affermarsi di un vero e proprio imperialismo del mondo anglosassone in genere, e di quello statunitense in specie, tramite la lingua - è l'inglese Robert Phillipson: non tanto in un suo volume dedicato espressamente a quest'argomento, nel complesso piuttosto deludente(18), quanto in due suoi saggi successivi (il secondo in collaborazione con la moglie Tove Skutnabb-Kangas)(19), ma soprattutto in una recensione del volume sopra citato (n.3) del Crystal, che è in realtà assai più che una recensione(20) e in cui il Ph. illustra particolareggiatamente fino a che punto il dominio e l'oppressione linguistica dell'inglese danneggi non solo la cultura, l'originalità, l'identità di un popolo, ma anche - come avviene nel Terzo mondo - le sue possibilità di sviluppo economico: e ricorda molti autori che hanno svolto nei particolari - e talora altrettanto ab irato quanto lui - questo tema: autori che indico in nota(21). Il presente ordine mondiale, egli giunge ad affermare, è al servizio dei Paesi occidentali, ed esso non potrebbe funzionare senza adeguate politiche linguistiche. Ed egli conclude che la diffusione dell'inglese, in particolare nel campo dell'istruzione superiore, ha come conseguenza necessaria la marginalizzazione delle altre lingue e implica, come afferma uno studioso giapponese da lui citato, una crescente tendenza al monolinguismo, all'omogeneizzazione e americanizzazione della cultura mondiale: con inevitabile rafforzamento - in circolo vizioso - anche di un'egemonia economico-politica già in atto: ed appunto qui sta la causa prima del continuo espandersi di quella lingua(22).
7. - Di fronte a lui appare di assai minore importanza la moglie, anche lei linguista e glottodidatta, la quale ha dedicato a questo tema addirittura un volume di oltre 800 pagine(23), che il noto interlinguista tedesco Detlev Blanke giudica particolarmente originale nell'evidenziare nuovi e importanti aspetti dell'imperialismo linguistico dell'inglese, ma che a mio avviso, per quanto concerne l'argomento qui trattato, non fa che confermare -senz'addurre argomenti realmente nuovi - che l'egemonia linguistica, specie a livello internazionale, va ben al di là dell'effetto distruttore operato su lingue e culture dominate: essa infatti porta con sé anche un'egemonia politica, uno sfruttamento economico, una permanente sottomissione dei più deboli e più poveri ai più potenti e più ricchi: il che dà luogo al circolo vizioso a cui sopra si è fatto cenno e che non è esagerato definire - come appunto fa il marito -«imperialismo linguistico». È il circolo vizioso
già descritto efficacemente dal Greiffenhagen(24), e che può riassumersi in modo particolarmente efficace in italiano col gioco di parole: chi domina nòmina e chi nòmina domina: la potenza politicamente egemone impone la propria lingua, e la diffusione di questa facilita e accresce l'egemonia politica, in una spirale senza fine(25).
Resta ad ogni modo che anche questa autrice non sa suggerire una cura realmente valida al male che essa così lucidamente e analiticamente descrive: e questo dispiace tanto più, in quanto essa giunge più volte alla soglia della soluzione, quando ripete - anche al termine del suo poderoso volume, richiamandosi a Marx - che dimostrare e cercar di persuadere è inutile, se a quest'opera intellettuale non va unita un'energica azione politica che corregga, in base a un piano preciso, l'attuale situazione di unequal power, causa prima dell'oppressione linguistica. Plus male facta nocent, quarti bene dieta docent, afferma anche un noto verso leonino (e, all'inverso, plus bene facta juvant...).
Invero una geremiade non è una politica (il molto sospirar nulla rileva, diceva anche il Petrarca)(26), così come - per esprimerci in termini medici - un'eziologia, anche esattissima, non è ancora una terapia valida.
III
La sola soluzione valida
8. - Qui l'eziologia consiste:
a) Nel riconoscer anzitutto il carattere sovrannazionale del male, e quindi l'errore di tutti i difensori del francese, del tedesco, dello spagnolo e così via che si disinteressano delle altre lingue e si preoccupano solo di ritagliar alla propria una posizione un po' meno subordinata rispetto all'inglese, riconoscendo ormai a quest'ultimo la sua posizione di «più uguale degli altri» (è il difetto proprio anche di tutte le opere fin qui citate, nessuna esclusa: valga per tutte la brochure di Die Zukunft der deutschen Sprache, Lipsia, cit. alla n.6, e in essa il contributo di Horst Hensel). È il modo più sicuro per obbligar i parlanti di tutte le altre lingue a schierarsi, senza eccezioni, con l'inglese, la cui definitiva affermazione verrà così, al più, ritardata: una sola lingua franca, anche se distruttiva, è sempre il meno peggio rispetto ad una situazione in cui sia necessario apprenderne due o tre (i francesi, ad es. sostengono l'inglese lingua del mondo, il francese lingua d'Europa: una pura illusione).
b) L'eziologia consiste, in secondo luogo - una volta riconosciuto che le lingue minacciate non potranno salvarsi se non insieme, con una strategia congiunta che giovi a tutte - nel saper sceglier tale strategia come volta non ad una semplice battaglia difensiva e di retroguardia, che si limiti a ritardare, ma non elimini, il pericolo di estinzione, ma centrata su un'azione volta a detronizzare l'inglese dalla sua posizione egemonica: il solo mezzo per una radicale preservazione di tutti gli
altri idiomi.
c) La corretta eziologia consiste infine - ed è questo forse il punto più importante - nel riconoscer che premessa indispensabile della strategia indicata è la creazione di un potere politico di peso, se non pari, almeno comparabile a quello degli Stati Uniti e del mondo anglo-parlante: concetti, tutti, estranei agli autori fin qui esaminati, nessuno escluso.
* * *
9. - Sono con questo passato a trattare l'ultimo tema di quest'articolo: dall'esame della malattia e dei suoi sintomi alla prospettazione di una terapia. È un compito che ho svolto in forma meno sommaria altrove, negli scritti che cito in bibliografia, e in particolare in una relazione che ho presentato a un recente congresso internazionale a Zagabria(27), nella quale ho proposto una vera e propria «rivoluzione copernicana» dell'attuale, e ormai secolare strategia - a mio avviso sterile ed eternamente perdente - sempre seguita dagli esperantisti, e cioè una sua radicale trasformazione. Qui posso dar solo un'estrema sintesi di tale mia proposta, riproducendo il sommario di essa - da me presentato a quel congresso al termine della mia ricordata relazione - sommario in cui chiarisco, sia pur nella forma più breve, il significato di quella mia proposta e preciso i modi e le forme in cui l'impegno politico degli esperantisti, che io sostengo, in favore dell'unità dell'Europa, dovrebbe realizzarsi, e le ragioni che lo impongono come assolutamente prioritario. A motto di essa potrebbero esser poste le parole di Marx, là dove afferma che finora i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo: è giunto il momento, egli aggiunge, di non solo interpretarlo, ma di cambiarlo. È un po' l'impressione che ormai fanno su di me gli studi, specie più recenti, d'interlinguistica in genere, e di esperantologia in particolare, anche i più scientificamente ferrati bibliograficamente informati(28): voglio dire - per restar all'ammonimento di Marx - che tutto, o almeno tutto l'essenziale, mi sembra sia ormai già stato detto in proposito: ma tutto ancora, purtroppo, resti da fare(29).
10. - Ecco ad ogni modo, in estrema sintesi, tale mia proposta, nei termini in cui l'ho prospettata a Zagabria. Essa è destinata soprattutto agli esperantisti europei, ma non solo a quelli: giacché tutti, io credo, dovrebbero cooperare a quest'azione, nella consapevolezza che l'affermazione dell'esperanto in Europa, se riuscirà, è oggi il primo passo realisticamente realizzabile - ma fondamentale - per poi passare alla realizzazione dell'esperanto nel mondo.
I
È ormai dato di fatto incontestabile che:
1.- L'Europa e il mondo necessitano di una lingua unica, la sola che può garantire col minimo sforzo la «trasparenza» della comunicazione internazionale a tutti i livelli.
2.- Questa lingua, allo stato attuale - dato il peso politico, economico, culturale
del mondo anglo-sassone - non può esser se non l'inglese.
3.- Essa però - come tutte le lingue imposte da un potere dominante - distruggerà in radice le altre lingue, se l'attuale situazione di squilibrio, e in conseguenza di egemonia, continuerà. La storia parla in proposito un linguaggio troppo univoco perché possa sussister il minimo dubbio.
II
1.- Da ciò gli esperantisti devono trarre argomento per una radicale modifica della loro strategia.
È vero che l'esperanto è di gran lunga la lingua più adatta alla comunicazione internazionale, e la sola pronta all'uso. Ma solo il sostegno di una potenza politica paragonabile a quella degli Stati Uniti potrebbe dar a questa lingua una possibilità concreta di affermazione. Averlo ignorato interamente per un secolo è stata la debolezza fondamentale e la fondamentale causa del fallimento, finora, della lingua di Zamenhof.
2.- Oggi però una chance nuova sembra aprirsi per tale lingua. L'Unione Europea, se saprà trasformarsi in Stato federale, avrà un duplice, diretto interesse a una lingua pianificata, la sola che l'esperienza e la storia mostrano esser priva dell'effetto glottofagico proprio delle lingue vive: interesse interno, per metter tutti i suoi popoli su un piede di parità; ed esterno,per controbatter, in Europa e nel mondo, l'invadenza dell'inglese: che non ha solo conseguenze distruttive su lingue e culture, ma è altresì strumento potente di egemonia
politica.
E - quel che è soprattutto essenziale - l'Europa Unita, se avrà la volontà, avrà anche la forza per raggiunger tali obiettivi.
3.- Da ciò l'esigenza di una «revisione angosciosa», di un agonizing reappraisal della strategia esperantista, che dovrà puntare sullo sviluppo e il consolidamento dell'Unione Europea come condizione indispensabile per un'affermazione dell'Esperanto, prima nel Vecchio continente e poi nel mondo: e quindi agire in attiva e costante cooperazione con tutti i movimenti europeistici.
III
1.- A tal fine non è necessario né utile che le attuali organizzazioni e movimenti politici esperantisti, tradizionalmente esistenti ormai da un secolo, assumano direttamente l'impegno politico sopra auspicato. Anzi, è indispensabile che essi continuino senza modifiche la loro attuale attività, per le ragioni che diremo fra poco.
2.- L'impegno politico che si è detto dovrà invece esser fatto proprio, e sviluppato con opportune scelte tattiche e strategiche organicamente studiate e messe in pratica, da un'organizzazione ad hoc: che potrà esser, se saprà adeguatamente trasformarsi e irrobustirsi, la già esistente Europa Esperanto-Unio. Ad essa dovranno dar appoggio, dall'esterno, anche gli esperantisti di altri continenti, nella convinzione che il successo dell'esperanto in Europa sarà il passo decisivo per la sua successiva affermazione anche nel mondo.
3.- Ciò detto, è bene insistere sull'opportunità, e anzi la necessità che l'U.E.A. e le sue diramazioni nazionali continuino la loro attuale attività culturale e di proselitismo,indispensabili a formare l'humus e il più vasto alone di consensi necessari al successo dell'azione politica che si è detto, affidata ad altra organizzazione.
Tale azione, da sempre interamente trascurata dagli esperantisti, appare sempre più la condicio sine qua non non solo per la realizzazione dei loro fini, ma per la sopravvivenza
dello stesso movimento esperantista, altrimenti anch'esso minacciato, come le altre lingue, di rapida estinzione. Donde la necessità di muoversi subito e senza esitare.
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1) - Claude Hagège, L'enfant aux deux langues, Parigi, Odile Jacob, 1996. Si veda anche il numero speciale, del dic. 1996, della rivista «Europe Plurilingue» (Neuilly-sur Seine), pubblicata dall'Università Paris 8-Saint Denis, contenente gli atti del Colloquio internazionale Quelle strategie pour développer le plurilinguisme en Europe, svoltosi il 24 novembre 1995 a Montpellier; come pure Tove Skutnabb-Kangas (a cura di), Multilingualism for all, Lisse (Paesi Bassi), Swets e Zeitlinger, 1995 e Konrad Schròder, Many languages, one world, contributo al vol., a cura di Monica Shelley e Margaret Winck, Aspect of European cultural diversity, Londra e New York, Routledge, 1995 (pp. 13-64). - Molto pertinentemente Lily Wong Filmore (Second language learning in children, contributo al voi., a cura di Ellen Bialystok, Language processing in bilingual children, Cambridge University Press, 1991) nota che non sempre il bilinguismo è una tappa verso il plurilinguismo. Spesso - come accade ai figli e ai nipoti degl'immigrati - è semplicemente una tappa verso il monolinguismo, con oblio della lingua dei padri. Credo che questo sarà, a lungo termine, anche il risultato della politica linguistica dell'U.E.: una soluzione impraticabile e impossibile che farà apparire senz'alternative l'affermazione dell'inglese. La critica del plurilinguismo è stata da me svolta, oltre che nei miei libri, nel mio articolo apparso ne «L'Esperanto», 2003, n. 6; ma soprattutto è da vedere, in proposito, l'importante articolo (contenente una critica altrettanto pertinente e severa anche della «non politica» linguistica dell'U.E.) Walter Zelazny (docente universitario polacco), Mythes et realità du savoir linguistique des Européens, «LEurope en Formation» (Nizza), 2002, n. 2, pp. 78-93.
2) - Howard Gardner, Frames of mind. The theory of multiple intelligence, New York, Basic Books, 2a ed., 1983 (tr. it. «Formae mentis». Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, Milano, Feltrinelli, 1987).
3) - George Steiner, After Babel, Londra, Oxford University Press, 1975. A lui fa eco, oltre vent'anni dopo, il «Financial Times», affermando che il trionfo definitivo dell'inglese costituirà a millennial gift to the world (articolo redazionale Mother of tongues, 4-5 aprile 1998). Sulla stessa lunghezza d'onda Brian McCalIen, English: a world commodity, Londra, The Economist Intelligence Unit, 1989 (e già
sessant'anni prima Richard Paget, Babel, or the past, present and future of human speech, Londra, Kegan Paul, 1930); David Crystal, English as a global language, Cambridge, University Press, 1997. In termini più moderati nel tono, ma non diversi nella sostanza, si esprimono anche David Graddol, The future of English?, Londra, British Council, 1997 (di prossima ristampa) e Joshua Fishman, Handbook of language and ethnic identity Oxford University Press, 1999 (si veda anche un suo articolo in italiano in «Global», ed. da «La Stampa», I.A.I., I.S.P.I., febbr. 2001). La causa psicologica dell'arroganza di alcuni di questi autori, per cui la lingua egemone diventa, inconsciamente e spontaneamente - si direbbe quasi ingenuamente - in coloro per cui è lingua materna la lingua più bella, più adatta, più utile a tutti e a tutti portatrice non solo di reciproca comprensione, ma di modernità, di libertà, di democrazia, di benessere; tale causa, dicevo, è stata vista da Anna Mauranen, Cultural differences in academic rhetoric, Francoforte, Lang, 1993, quando ha scritto: «In ogni campo le cose viste da una posizione dominante non sembrano ideologiche, mentre appaiono tali viste da una posizione dominata». - Un'identica ideologia ha caratterizzato in passato - e in parte sopravvive anche oggi - i difensori del francese, veicolo insostituibile (essi sostengono) dei principi democratici della Rivoluzione francese, di cui il mondo non può privarsi (così, ancor oggi, afferma, con la stessa disinvoltura di uno Steiner, Jaques Toubon, già ministro per la cultura e la francofonia dal 1995 al 1997, ad es. nella brochure Die Zukunft der deutschen Sprache. Eine Streit-schrift, Lipsia, che si cita al termine della n. 6. Nello stesso senso il voi. a cura di Bernard Cassen, Quelles langues pour la science?, Parigi, La Découverte, 1990 (l'ho recensito, insieme ad altri autori francesi della stessa tendenza, nel voi. da me curato, Quale «lingua perfetta»?, cit. alla n. 18, (pp. 87-94). Si vedano anche i due voli, apparsi entrambi a Parigi presso Honoré Champion: Norman Labrie, La construction linguistique de la CE., 1993 e Claude Truchot, Le plurilinguisme européen, 1994.
4) - Come il peruviano Mario Vargas Llosa o il tedesco Peter Schneider: il primo nel n. di «Global» cit. alla n. prec; il secondo nel «Corriere della Sera», Milano, 6 maggio 2001 (l'ho recensito nel n. del 16 maggio 2001 del quotidiano «L'Opinione», Roma). Un commento analogo merita uno dei più «snob» di questi dilettanti, il corrispondente dall'Italia dell'«Economist» Beppe Severgnini, per un articolo di analogo tenore apparso anch'esso nel «Corriere della Sera» del 22 febbr. 1999. Ma il colmo dell'irragionevolezza e dell'incompetenza è forse rappresentato dal premio Nobel per la letteratura Derek Walcott, nella sua intervista al quotidiano romano «La Repubblica», dell'8 luglio 2001.
5) - Axel Hùbler, Einander verstehen. Englisch im Kontext internationaler Kommunikation, Tubinga, Narr, 1985.
6) - Non so trattenermi dal riferire un'eccezione felicemente espressa in una battuta umoristica di un altro autore tedesco, Eduard Grosse, nel suo contributo alla silloge Die Zukunft der deutschen Sprache. Themenabend der SPD-Bundestagsfraktion, 24 ott. 2000, Doc. 01/01, il quale rileva che la lingua
tedesca è stata a fondamento del progresso del sec. XX, con i nomi di. Einstein, Freud e Marx; che fino al 1933 il tedesco era la lingua internazionale della medicina e che il mondo tedesco ha segnato in modo significativo anche il secolo appena concluso, grazie all'invenzione, ad opera del berlinese prof. Zuse, del calcolatore elettronico, heute als «Komm Puter», also als Futterungsruf an einen Truthahn anglifiziert (mentre oggi, aggiungo io, quale sia la situazione anche del tedesco è chiaramente indicato da un gruppo di studiosi germanici nelle loro Thesen zur Situation der deutschen Sprache a conclusione - pp. 88-91 -del volume di più autori Die Zukunft der deutschen Sprache. Eine Streitschrift, Lipsia, Klett, 2000). Ma anche il Grosse - così come gli autori che hanno contribuito alla brochure cit. per ultima - finiscono per adeguarsi: «L'inglese - egli conclude riassumendoli tutti - deve arricchire la nostra lingua, ma non sostituirla»: come se ciò fosse, anche a lungo termine, possibile.
7) - I quali sono non solo, quasi senza eccezioni, più o meno esplicitamente favorevoli all'inglese (il che e ancora comprensibile), ma favorevoli senza mai neppur accennare ai rischi a ciò connessi, il che è provp al tempo stesso d'ipocrisia e di servilismo (quando non d'ignoranza dei più elementari insegnamenti dell, sociolinguistica).
8) - Così ad es. Theodossia Pavlidou (glottodidatta greca), nel suo contributo al volume, a cura di Florian Coulmas, A language policy for the European Community, Berlino-New York, Mouton de Gruyter, 1991 o J. Normann J0rgenson (a cura di) Det danskesprogs status ar 2001 - er dansk et truet sprog? («La lingua danese è una lingua minacciata?»), Copenaghen, Danmarks Laererhojskole, Institut for Dansk Sprog og Litteratur, 1991: si veda, in tale volume, l'ultimo contributo, nonché la recensione di quest'opera apparsa nella rivista «Language, Culture and Curriculum», 1991, n. 3, pp. 259-261. Minacce analoghe ad opera dell'inglese paventa Pietro U. Dini per Le lingue nazionali dei Paesi Baltici in un articolo con tale titolo apparso nel «Bulletin Européen», organo della Fondazione Europea Dragan, Milano, settembre 1997.
9) - Rinvio, su quest'ultimo punto, al mio saggio A policy for Esperanto, Rotterdam, Universala Esperanto Asocio, 1997 (esiste anche, ivi, in francese e in esperanto); ma soprattutto a Louis-Jean Calvet, Linguistique et colonialisme, Parigi, Payot, 1974, nonché ai volumi di Sergio Salvi Le nazioni proibite, Firenze, Vallecchi, 1973 e Le lingue tagliate, Milano, Rizzoli, 1975, e di Guy Héraud, LEurope des ethnies, 3a ed., Bruxelles, Bruy-lant, 1993.
10) - Di particolare importanza è in proposito il saggio di Tazio Carlevaro, Cu Esperanto postvivos la jaron 2045? («Sopravviverà l'esperanto oltre l'anno 2045?»), Bellinzona, Hans Dubois, 1999. Carlevaro era stato preceduto da Max Hans-Jurgen Mattusch, Vielsprachigkeit: Fluch oder Segen fùr die Menschheit, Francoforte, Peter Lang, 1999. Sul saggio di Carlevaro si veda anche la mia recensione (in esperanto) nella rivista «L'esperanto», Roma, 1999, n. 6 (e altro articolo in italiano, ivi, n. 3, 2000); ma soprattutto U. Broccatelli, anch'egli ne
«L'esperanto», ivi, 1999, n. 7; sul volume del Mattusch si veda la mia recensione, in italiano, ivi, 1999, n. 6.
11) - R. Posner, Goodbye lingua teutonica?, «Target», Amsterdam, 1992, n. 2, pp. 145-170 (soprattutto pp. 163-4); Johannes Lohse (rappresentante permanente della Germania presso l'Unesco), contributo all'opera, a cura di A. R. Bunz e altri, Nachdenken ùber Europa. 2° voi., Berlino, Volk und Welt, 1993.
altri (a cura di), Sprachen in Europa, Innsbruk, Institut fùr Sprachwissenschaft, 1999; Katharina Weisrock (a cura di), «Werkzeug Sprache» - Sprachpolitik, Sprachfàhigkeit, Sprache und Macht, Hildesheim, Olms, 1999; il n. 2 del 1999 della rivista «Zeitschrift fùr Anglistik und Amerikanistik», dedicato al problema linguistico nell'I).E.
17) - John M. Swales, English as «tyrannosaurus rex», «.World Englishes» (Basii and Blackwell), 1997, n. 3.
18) - Robert Phillipson, Linguistic imperialism, Oxford University Press, 1992. (L'ho recensito nel voi., da me curato, Quale «lingua perfetta»?, Manduria, Lacaita, 1995, pp. 85-6). Si veda ora di lui anche English-only Europe? Challenging languace policy, Londra, Routladge, 2003 favorevole anch'egli al plurilinguismo e contenente la citazione di molte prese di posizione in favore di esso. Altri studi favorevoli a tale secondo me errata soluzione sono elencati da Jasone Cenoz, nel suo articolo Age of learning and orai production in the third language, nella rivista belga, edita a Bruxelles, «Interface Journal of Applied Linguistics», 16.2 (2002).
19) - Robert Phillipson, English language spread policy, «International Journal of the Sociology of Language», 1994, voi. 107, pp. 7-24; Robert Phillipson e Tove Skutnabb-Kangas, English, panacea or pandemie, «Sociolinguistica», 1994, voi. 8, pp. 73-87.
20) - Robert Phillipson, Voice in global English, «Applied Linguistics» (Oxford University Press), 1999, n. 2.
21) - J. Tollefson, Planning language, planning inequality, Harlow, Longman, 1991; B. Dendrinos, The EFL textbook and ideology, Atene, Grivas, 1992; P Dasgupta, The otherness of English: India's auntie tongue syndrome, Delhi e Londra, Sage, 1993; A. Pennicook, The .cultural politics of English as international language, Harlow, Longman, 1994; T. Skutnabb-Kangas e R. Phillipson, Linguistic human wrights: overcoming linguistic discrimination, Berlino, de Gruyter, 1995; P. Mùhlhauser, Linguistic ecology: language change and linguistic imperialism in the Pacific region, Londra, Routledge, 1996; J. A. Fishman e altri (a cura di), Post-imperial English: status change in former British and American colonies, 1940-1990, Berlino, de Gruyter, 1996; B. B. Kachru, World Englishes and English-using communities, «Annual Review of Applied Linguistic», XVII, pp. 66-87.
22) - Yukio Tswda, The diffusion of English: its impact on culture and communication, «Kejo Communication Review», XVI, pp. 49-61. Tesi, questa, che
è solo un caso particolare del generale quadro sociologico di globale americanizzazione (Bernd Polster, a cura di, Westwind. Die Amerìkanisierung Europas, Colonia, Du Mont, 1995, con molta bibliografia).
23) - Tove Skuttnabb-Kangas, Linguistic genocide in education - or worldwide diversity and human rights, New York, Erlbaum, 2000, pp. XXIII, 785 (da me recensita ne «L'esperanto», Roma, 2000, n. 8, in italiano, e in «Europa Bulteno», Roma, 2000, n° 9, in esperanto).
24) - Martin Greiffenhagen, Zur Rolle der Sprache in der Politik, introduzione al voi. da lui curato Kampf um Wòrter, Bonn, Bundeszentrale fùr politische Bildung, 1980. Nello stesso senso Frank Stark, Sprache als Instrument der Aussenpolitik, contributo alla brochure Die Zunkunft der deutschen Sprache, Lipsia, cit. supra al termine della n. 6.
25) - Il saggio del Greiffenhagen su «la funzione della lingua nella politica» dovrebbe pertanto esser completato, e anzi preceduto da un saggio dal titolo inverso, su «la funzione, e l'influenza, della politica sulla lingua»: tema peraltro già adeguatamente svolto da L.-J. Calvet e dagli altri autori cit. alla n. 9.
26) - E Pietro Metastasio, ispirandosi probabilmente a quel verso, ha composto, nella «Clemenza di Tito» -musicata anche da Mozart - una graziosa arietta: «S'altro che lacrime / per lui non senti... », che meriterebbe di esser citata per intero.
27) - All'European Symposium of Linguists, Sociologists and Politicians, dedicato al tema «Europear Language—Utopia or Necessity», organizzato a Zagabria, il 27 e 28 luglio 2001, dall'lntenationa Academy of Law (Bruxelles), dall'Asocio por Europa Konscio (Maribor) e dalla Societo por Europe Konscio (Zagabria), symposium i cui atti saranno pubblicati prossimamente.
28) - Mi limiterò a citare, fra gli studi sopra ricordati, solo due lavori recentissimi: il saggio di ben 80 pp. - un modello nel suo genere - di Detlev Blanke, Vom Entwurf zur Sprache, apparso in «Interface. Journal of Applied Linguistics» (Bruxelles) 15. 1. 2000 (corredato da 10 pp. di bibliografia alla quale rinviamo per più ampia informazione su questo tipo di studi), come pure il volume di quasi 800 pp. Studien zur Interlinguistik. Festschrift fùr Detlev Blanke zum 60. Geburstag, a cura di Sabina Fiedler e Liu Haitao, Dobfichoviche (Praga), Kava-Pech, 2001 (con contributi in tedesco e in esperanto). Tra questi i più vicini, a vario titolo, o almeno i meno lontani dalla mia tesi sono quelli di W. Bormann, H. Erasmus, Z. Gador, R. Corsetti, ai quali aggiungo il saggio, in esperanto (ma apparso anche in altre lingue) di L Gados, Brilu ĉiu lingvo samrajte - Por multilingueco kaj egalrajta komunikado en Eùropo, apparso a Budapest, presso la Human Europa Szòvetség, 2001. - Ma forse, paradossalmente, lo scritto per altro verso più interessante per noi (nel volume in onore di Blanke) è un contributo di T.-D. Dahlenburg sull'attualità dei libri per l'insegnamento dell'esperanto pubblicati, finché è esistita, nella cosiddetta Repubblica Democratica Tedesca, ricchi di spunti (e che spunti!) sull'attualità europea e mondiale: davvero «attuali», anche a mio avviso, per mostrare quale abisso separi la settaria propaganda politica, di
chiara marca sovietica, di cui erano infarciti quei libri - senza alcun rapporto con la natura e i fini dell'esperanto - dalla politicizzazione, foto caelo diversa, che io auspico per il movimento esperantista: non per porlo al servizio di questa o quella ideologia, e ancor meno di questa o quella Superpotenza, ma solo per dargli la forza di passare dalle parole ai fatti, ed unicamente entro tali limiti.
29) - Troppo spesso invero quegli studi si attardano su temi e argomenti che la travolgente affermazione dell'inglese fa apparir sempre più, se così posso esprimermi, come «virtuali», relativi a una realtà sempre più meramente immaginaria e sempre meno attuale: insomma, discutere del sesso degli angeli, mentre Bisanzio sta per esser sommersa dai Turchi. E quell'impressione cresce ancora se si aggiungono altre opere meno recenti - come il voi. anch'esso di più autori, Towards linguistic democracy (in inglese, francese ed esperanto), Rotterdam, Universala Esperanto Asocio, 1998 - o di altri, invece, recentissimi ed ancora in corso di pubblicazione, come gli atti del primo e del secondo Nitobe-Symposium - quest'ultimo organizzato nell'ambito dell'84° Congresso Universale di Esperanto (1999) - o di altri atti della conferenza su Language policy in Europe, organizzata lo stesso anno dalla tedesca Gesellshaft fùr Interlinguistik. Se si tiene conto di tutta questa imponente massa di studi, e con essa della ulteriore, e ancor più imponente, bibliografia di cui i singoli contributi a ciascun volume sono corredati, si avverte ancor più viva la validità e l'urgenza dell'esortazione sopra ricordata di Marx. Se la si trascura interamente - come cosa che non riguarderebbe, neppure alla lontana, lo scienziato - allora tutti questi scritti appaiono come un eternamente vano - per dirla con due espressioni italiane - «pestar l'acqua nel mortaio», o «cercar farfalle sotto l'arco di Tito» (verso, quest'ultimo, di Giosuè Carducci) — o, più semplicemente, much ado about nothing.
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Bibliografia
Ho svolto meno sommariamente la mia proposta di «rivoluzione copernicana» della strategia esperantista nel mio opuscolo Por politiko de Esperanto, Rotterdam, U.E.A., 1997, 23 pp. (apparso anche in inglese e in francese, ivi, e in italiano, presso l'autore, col titolo // luccio e il pescecane, estratto da «Federalismo e Libertà», Bologna, 1998, n° 3). In detto opuscolo ho anche fornito la bibliografia essenziale.
La brochure di Tazio Carlevaro, in esperanto, a cui ho fatto allusione (supra, nota 10) e che raccomando all'attenzione di tutti, s'intitola, come si ricorderà, «Sopravviverà l'esperanto oltre all'anno 2045?» (Cu Esperanto postvivos la jaron 20451, Hans Dubois, Bellinzona, 1999). Di particolare importanza sono anche il volume di Claude Piron, Le défi des langues, Parigi, L'Harmattan, 1994 e la
brochure di Làszló Gados, Brilu ciu lingvo samrajte, supra cit. alla n. 28, che è la meno lontana dalle mie tesi.
* * *
PS. - Dopo che questo scritto era stato terminato sono stati pubblicati almeno altri due volumi meritevoli di menzione.
Il primo, più noto, è di uno specialista del problema, Robert Phillipson, English-only Europe? («Un'Europa che parli solo inglese?»), Londra, Routledge, 2003. Per grandi che siano i meriti dell'autore nel denunziare con forza i rischi d'impoverimento culturale e di soggezione politica di un'Europa che abbia la lingua dell'America come sola lingua franca (e per quanto ricca e completa sia la documentazione e la bibliografia che accompagna l'opera, anche se quasi solo inglese, sì che verrebbe voglia di dir al Ph.: medice cura te ipsum), resta che anch'egli non sa proporre altro rimedio se non il plurilinguismo. A questa soluzione non bisogna stancarsi di obiettare - riassumo ancora una volta quello che ho già detto sopra - che il mondo, e non solo l'Europa, ha sempre più bisogno di una lingua franca unica, dai livelli più bassi (il turista all'estero) a quelli medi (la grande economia internazionale) a quelli più elevati (la scienza e la ricerca); che unita a questa esigenza, obiettiva e ineludibile, e alla pretesa impossibilità d'insegnare a tutti più lingue, la dominanza statunitense in tutti i campi, rende per il momento l'inglese senz'alternative, perché, ripeto, risponde a un'esigenza reale, e non solo e soprattutto a una volontà imperialistica della potenza egemone.
Al tempo stesso però la sempre più ampia diffusione dell'inglese implica tutti i rischi di «linguicidio» che Ph. denunzia. La sola soluzione non illusoria è dunque quella di dar vita a una nuova situazione, a un nuovo equilibrio internazionale in cui sia possibile introdurre e affermare una lingua franca unica europea, e poi mondiale, che non abbia la forza distruttiva propria di tutte le lingue vive in posizione dominante. E questa può esser solo una lingua pianificata, in quanto non materna per nessuno.
Il problema è dunque anzitutto politico, non linguistico (è questo che i vari Phillipson non vedono (e anche per questo restano vittime della chimera del multilinguismo). Solo se l'Europa saprà divenir uno Stato federale (il che sembra oggi, purtroppo, più chimerico che mai) e avrà un'economia, un esercito, una tecnologia, una ricerca scientifica di una consistenza e di un dinamismo comparabili, anche se non uguali, a quelli degli Stati
Uniti, solo allora essa potrà - se ne avrà la consapevolezza e la fermezza (e se non sarà troppo tardi) - darsi una lingua pianificata che da un lato metta tutti i suoi popoli su un piede di parità (e sia di esempio al mondo, in particolare al Terzo mondo), e dall'altro contrasti l'egemonia dell'inglese, con i suoi effetti devastanti, dando tuttavia piena soddisfazione all'esigenza di una trasparente e facile comunicazione intereuropea e poi planetaria. Il resto sono solo inutili querimonie, che non possono modificar in nulla la realtà: e anche il volume del Ph., nonostante i suoi pregi, non fa eccezione.
* * *
Assai minor importanza ha il secondo volume di Andreas Ross, Europaische Einheit in babylonischer Vielfalt («L'unità europea entro una molteplicità linguistica babilonese»), Francoforte, Lang, 1983. Anzitutto perché esso tratta solo del problema linguistico entro l'Unione europea, che non è quello più importante, anzi è in certo senso secondario (il problema vero è l'avvenire linguistico dell'intera Europa, non della burocrazia bruxellese). In secondo luogo perché, anche entro questo ambito, egli non sa proporre se non tre lingue «più uguali delle altre», e cioè elevate al rango di lingue di lavoro (come se questo potesse salvar le altre dalla sparizione, o anche solo ritardarla, e non accrescesse al tempo stesso le difficoltà dei burocrati che dovrebbero apprender tre lingue, per dir così, di servizio, e non una): tre, perché all'inglese e al francese egli vorrebbe veder aggiunto, naturalmente, il suo tedesco. In terzo luogo perché egli non si rende conto, neppur lui - ed è il punto fondamentale - che tale sua proposta deriva dal fatto che anche nell'ambito dell'Unione Europea, come dovunque, vige la legge ferrea della sociolinguistica, la legge del più forte, e cioè - non mi stancherò di ripeterlo - che la lingua franca che s'impone è sempre e solo quella del Paese politicamente dominante (che ha, nell'U.E., il suo cavallo di Troia nella Gran Bretagna): per questo oggi, hic et nunc non c'è alternativa all'inglese, e infatti anche all'interno delle istituzioni europee questa lingua fa ogni giorno passi ulteriori per affermarsi come sola lingua di lavoro (se non lo è già), alla barba di chi propone il trilinguismo.
Ma di tutto questo problema politico - che pure è alla radice di tutti i fenomeni di dominanza linguistica, all'interno delle nazioni come in ambito internazionale - gli studiosi del problema linguistico europeo - e non solo il Ross - non sembrano aver il minimo sentore: altrimenti volgerebbero la loro attenzione all'esigenza preliminare - un préalable assoluto per combattere l'inglese - di un forte potere europeo comparabile agli Stati Uniti, e cioè, come dicevo, un'Europa federale (di cui la cosiddetta Costituzione recentemente elaborata e firmata dai governi membri - ma non si sa quando approvata - costituisce solo una squallida parodia)(*).
Concluderemo dunque malinconicamente col vecchio detto: quod deus perdere vult, dementat prius. Malinconicamente, perché nessuno, assolutamente nessuno, si rende conto di quel préalable e tutti ragionano come se non esistesse. Sì che alla previsione di Bernard Lewis, islamista di vaglia, che fra un secolo l'Europa sarà interamente islamizzata, occorre aggiungere quella che, se il corso delle cose continuerà ad esser quello attuale, essa sarà anche completamente anglicizzata. Quod dii avertant.
(*)- Rimando in proposito a un mio articolo in argomento apparso in «Affari Esteri» (Roma), estate 2004.
Andrea Chiti-Batelli è nato a Firenze nel 1920. Nel
1950 ha vinto un concorso al Senato, dove è stato per
oltre vent'anni Segretario delle Delegazioni italiane alle
Assemblee Europee.
Si è interessato fin da studente al problema dell'unità
europea, grazie all'influenza di Pietro Calamandrei, con
cui si è laureato.
È membro dal 1945 del Movimento Federalista Europeo
e sul tema dell'unità europea ha pubblicato molti
articoli e libri, fra i quali ultimi ricordiamo solo
L'Unione Politica Europea, Roma, Senato della
Repubblica, 1978 e L'Union de l'Europe au tournant du
siècle, Nizza, Presses d'Europe, 2000.
Si è interessato relativamente tardi all'esperantismo,
grazie all'amicizia di Umberto Broccatelli; anche su
questo argomento ha pubblicato articoli e volumi, nei
quali ha insistito sulla dimensione essenzialmente
politica del problema di una lingua internazionale, nel
senso che - egli ha sempre sostenuto - una lingua, come
la storia (in particolare del latino) dimostra, può
affermarsi non per la sua facilità o per esser particolarmente adatta alla comunicazione internazionale, ma
per il potere politico che la sostiene. Perciò - egli ha sempre affermato - l'esperanto potrà diffondersi su
larga scala solo se sostenuto da un potere politico: come primo passo come lingua ufficiale dell'auspicata
Federazione Europea, per poi cercar d'imporsi, per questa via, come lingua ausiliaria anche mondiale.
Fra i diversi suoi volumi in argomento ricordiamo solo quelli pubblicati in occasione del centenario
dell'Esperanto: Una lingua per l'Europa, Padova, Cedam, 1987e soprattutto La politica d'insegnamento
delle lingue nella Comunità Europea: stato attuale e prospettive future, Roma, Armando, 1988.
Questo saggio di Andrea Chiti-Batelli è stato pubblicato nel numero speciale de L’esperanto della Federazione Esperantista Italiana di novembre-dicembre 2006 con la seguente intestazione:
C'è un rimedio alla glottofagia dell'inglese?
Una rassegna bibliografica (con una conclusione politica)
Andrea Chiti-Batelli
Introduzione di Renato Corsetti