Quando nel dopoguerra la comunità internazionale si accinse alla stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, non vennero presi in considerazione i diritti collettivi. C'era una renitenza profonda a garantire diritti ad intere comunità. Uno dei motivi principali era la paura di scatenare nuovi conflitti armati, nuovi spostamenti di confini di stato o lotte all'interno degli stati. Così nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani vennero fissati i diritti dell'individuo, non vennero invece nemmeno menzionati i diritti collettivi, i diritti cioè di comunità religiose, linguistiche ed etniche. Così facendo, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani non poteva o non voleva correggere un fondamentale difetto che nelle dittature aveva avuto il suo tragico culmine, cioè la discriminazione delle minoranze linguistiche, etniche e religiose. Gli ebrei, i sinti e roma, i membri delle minoranze linguistiche in Italia, Spagna, Germania, Austria, Polonia ecc. non erano perseguitati in quanto individui che avevano commesso atti considerati "reati" dai regimi o perché propagandavano ideologie considerate "sovversive", ma in quanto membri di comunità diverse (in lingua, religione ecc.) dalla comunità di maggioranza statale.

 

 

Alle base della renitenza al riconoscimento dei diritti collettivi c'erano vicende complesse di minoranze linguistiche, religiose, etniche, alla base del rifiuto dei diritti collettivi c'era la plurietnicità che in tutto il mondo non corrispondeva (e tuttora non corrisponde) ai confini di Stato. Alla base della renitenza c'era però anche il problema irrisolto del colonialismo. Le "nazioni", cioè gli Stati firmatari della dichiarazione, non avevano l'intenzione di rinunciare alle proprie sovranità o di concedere dei diritti alle minoranze linguistiche nel proprio territorio.

Nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani venne stabilito, in corrispondenza con la mentalità degli stati che la dichiararono, il diritto all'istruzione (articolo 26), venne stabilito pure il diritto di "pieno sviluppo della personalità umana", venne anche stabilito il diritto "di prendere parte liberamente alla vita culturale" (articolo 27); non venne invece stabilito (perché appunto diritto collettivo) il diritto all'istruzione nella lingua materna, alla vita culturale nella lingua materna, al pieno sviluppo della personalità nel rispetto della lingua materna. Tantomeno venne stabilito che tutte le comunità linguistiche avessero diritto ad un sistema scolastico nella propria lingua. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani lascia così una lacuna.

Non mancano le strane interpretazioni. Così la Francia interpreta il principio della parità (articolo 1) nel senso che tutti sono uguali dunque tutti i cittadini della Francia sono francesi, che dunque tutti devono usare il francese e solo il francese in tutti gli atti pubblici e privati. Le comunità di lingua minoritaria non godono di tutela, anzi, non viene nemmeno riconosciuta la loro esistenza.

A causa del mancato inserimento dei diritti collettivi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani possono continuare molte ingiustizie e discriminazioni iniziate con i sistemi totalitari. I ladini delle Dolomiti, per citare un esempio vicino, sono stati suddivisi in tre Province e due Regioni dal fascismo affinché fosse più facile assimilarli. Nessuna amministrazione nazionale o regionale nei più di 50 anni della Repubblica oppure e di autonomia regionale ha voluto ristabilire l'unità amministrativa dei ladini; l'opera fascista viene così confermata, il passato continua.

I diritti collettivi delle minoranze linguistiche vennero fissati in documenti o convenzioni aggiuntive alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Uno dei punti principali dei diritti collettivi, non espressi nella Dichiarazione, è il diritto all'insegnamento della lingua madre nelle scuole del proprio territorio. Questo diritto venne fissato in un documento dell'ONU soltanto nel 1992 (la risoluzione n. 47/135 dell'Assemblea Generale del 18 dicembre: „Dichiarazione dei Diritti degli Appartenenti a minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche").

Un documento importante per l‘Unione Europea è la Convenzione Quadro per la tutela delle minoranze linguistiche. Questo documento del Consiglio d'Europa dovrebbe colmare un vuoto lasciato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il primo articolo infatti recita che la tutela delle minoranze linguistiche è parte integrante dei diritti umani. In realtà il documento si limita a poche e poco precise dichiarazioni di principio. La convenzione non predispone degli strumenti per attuare i principi, non contiene disposizioni chiare sui diritti da tutelare, non definisce nemmeno chiaramente gli obblighi delle istituzioni statali o regionali verso le minoranze linguistiche, e non offre nessuna possibilità di ricorso in caso di soprusi. Parecchie formulazioni ammettono inoltre diverse possibilità di interpretazione morbida ed evasiva o addirittura contraria ai diritti delle minoranze.

Nell'articolo 5 si stabilisce che è dovere degli organi firmatari della convenzione promuovere norme per conservare la cultura e la lingua delle minoranze. Una misura di questo genere è da considerarsi, almeno secondo la logica più immediata, l'insegnamento della lingua minoritaria nelle scuole del territorio della minoranza. Gli articoli che spiegano questo diritto però sono contradditori e non esprimono garanzie. Così l'articolo 13 recita che "nel quadro del loro sistema educativo" gli Stati riconoscono il diritto degli appartenenti alle minoranze di istituire proprie scuole private. Visto che i "sistemi educativi" attuali non prevedono (salvo poche eccezioni) l'insegnamento delle lingue di minoranza, tale articolo equivale ad una approvazione completa dello status quo, rappresenta cioè una conferma del non-insegnamento della lingua di minoranza. La limitazione a proprie scuole private inoltre costituisce solo un non-divieto di insegnamento della lingua madre al di fuori del sistema educativo ufficiale - si tratta dunque solo di una rinuncia a repressioni! Il secondo comma dello stesso articolo poi equivale ad un decreto di esclusione delle lingue minoritarie dalle scuole: "dall'insegnamento non possono nascere impegni finanziari per gli Stati". Le minoranze che vogliono imparare la propria lingua a scuola dunque devono o pagarsi le scuole o insegnare gratis (e forse addirittura a luce spenta), il chè è in contrapposizione netta con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Viene anche, come se non bastasse, subito precisato che l'apprendimento della lingua minoritaria non deve essere uno svantaggio per l'apprendimento della lingua ufficiale dello stato - il chè offre ogni possibilità agli Stati di impedire ogni insegnamento della lingua minoritaria. La Convenzione Quadro per la tutela delle minoranze linguistiche del Consiglio d'Europa invece di tutelare deride i diritti delle minoranze. Non c'è da stupirsi: il testo è stato steso dagli Stati che non rispettano i diritti delle minoranze, non dalle minoranze. Come dire, il ladro farà le leggi in modo che possa continaure a rubare!

Un altro documento del Consiglio d'Europa è più completo: la "Carta europea delle lingue regionali o minoritarie" (1992). La Carta contiene disposizioni precise sull'istruzione (articolo 8): la lingua minoritaria deve essere insegnata "senza pregiudizi riguardo all'insegnamento della/e lingua/e ufficiale/i dello Stato"; questo insegnamento deve avvenire in "parte rilevante" a partire dal livello prescolastico fino al livello universitario e all‘educazione permanente. La Carta garantisce ampi diritti alle minoranze. Il difetto principale stavolta è inserito nelle premesse: ogni Stato può decidere a quali minoranze intende applicare le norme di tutela.

Il documento più completo e senza limiti o condizionamenti sui Diritti delle comunità linguistiche è la Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici. Questa dichiarazione, approvata nel 1996 a Barcellona, si intende come aggiuntiva o parallela ai Diritti Umani; venne redatta principalmente dal Ciemen, un'organizzazione catalana per le minoranze linguistiche. Le norme stabilite (ed è un particolare di grande rilievo) sono dunque state elaborate da rappresentanti delle minoranze e non dalle maggioranze.

Ogni individuo, così stabilisce l'articolo 29 della Dichiarazione, ha il diritto di ottenere l'insegnamento nella lingua del proprio territorio; così come ogni comunità linguistica può stabilire autonomamente nel proprio territorio la misura e le modalità d'insegnamento della propria lingua per tutti i livelli scolastici. Per il raggiungimento del livello ottimale della conoscenza della propria lingua le comunità linguistiche possono disporre di tutte le risorse umane e materiali, di tutte le strutture, infrastrutture e dei materiali didattici necessari, indipendendemente da impegni finanziari derivanti da tale insegnamento. Ogni comunità linguistica inoltre ha il diritto all'insegnamento della propria lingua in una misura che garantisca la migliore conoscenza possibile di tale lingua, in modo che possa essere usata in tutti i campi. Ogni comunità linguistica ha diritto ad un insegnamento che garantisca una profonda conoscenza del proprio patrimonio culturale.

È sintomatico che questa dichiarazione sia ampiamente inadempiuta, che non siano rispettati i suoi principi, che le maggioranze non siano disposte a concedere alle minoranze quei diritti dei quali loro stesse godono.

Mancanze ovunque

Quasi ovunque nell‘Unione Europea il diritto della minoranza all'insegnamento della propria lingua nelle scuole di tutti i livelli e di ogni tipo non è rispettato. Occitani, baschi, sardi, friulani, ladini (che al contrario dell'opinione corrente godono di una misura minima d'insegnamento della lingua madre), corsi, occitani (Italia, Francia), baschi, croati (Italia, Austria), sloveni (Italia, Austria), sorbi (Germania): per tutti l'insegnamento della lingua madre nelle proprie scuole viene negato o concesso in misura così ridotta da non garantire la sopravvivenza della minoranza.

Teoria e prassi

Per tedeschi e italiani della Regione Autonoma Trentino-Südtirol l'insegnamento della lingua madre è un diritto fondamentale. Chiunque metta in dubbio questo diritto viene identificato come fascista.

I ladini però non godono di questo diritto. Metà delle materie è insegnata in italiano, l'altra metà in tedesco, per il ladino rimane un angoletto minimo, tanto che non si possa dire che non ci sia: due ore settimanali nelle scuole d'obbligo, una sola ora nelle superiori. In nessuna delle altre scuole della provincia e delle località limitrofe, come Brunico, Bressanone o Bolzano, dove molti ladini frequentano scuole superiori che non ci sono nelle valli ladine, c'è la possibilità di imparare il ladino.

Lo Statuto dice che nelle località ladine le scuole devono essere paritetiche. A Picolin (Piccolino) nel comune di San Martino in Badia pochi anni fa venne istituita una scuola professionale, scuola che dipende dalla scuola professionale di Brunico. La lingua d'insegnamento è solo quella tedesca. Il ladino: zero. Italiano: le ore di insegnamento di lingua. Scuola paritetica, come prevista dallo statuto: niente. Interventi politici per il rispetto delle regole: nessuno. Interventi politici per l'insegnamento (pur minimo) della lingua madre: nessuno. La Provincia stessa dunque non rispetta le norme dello Statuto. Il diritto all'insegnamento della lingua madre, raggiunto da parte tedesca dopo aspre esperienze, vale solo per italiani e tedeschi, ma non per i ladini. Coloro che s'impegnano per un aumento minimo dell'insegnamento della lingua ladina nelle scuole vengono inoltre denigrati. Il Sudtirolo un modello per l'Europa?

Articolo originale: Diritti umani e pubblica istruzione. Una storia di contraddizioni, mancanze e ritardi  di Mateo Taibon