Camminando negli ultimi mesi per le strade trafficate di Erevan, capitale della piccola repubblica caucasica, capita sempre più spesso di scorgere automobili dalle targhe insolite, in caratteri arabi. Non si tratta però delle solite macchine di turisti iraniani venuti a visitare il paese, o diretti magari in Georgia, a Batumi, per trascorrere alcuni giorni di riposo sul Mar Nero. I nomi su quelle targhe, a volerli leggere (Aleppo, Damasco...), parlano di quella che è forse la più grande tragedia di questi anni: la guerra in Siria. Non sono vecchie o scassate, come si immaginerebbero le macchine di profughi sfuggiti a un conflitto di quelle dimensioni, e giunte qui dopo un lungo, difficile viaggio. Diverse sono modelli abbastanza recenti di BMW o Mecederes, e parlano del benessere economico di cui godeva prima della guerra una parte significativa della comunità armena in Siria, minoranza da cui proviene la quasi totalità dei profughi presenti oggi in Armenia.

Si stima che, dei circa 100.000 armeni presenti sul territorio siriano prima dell’inizio del conflitto, più dell’80% vivesse ad Aleppo, terza città cristiana del mondo arabo dopo Beirut e Il Cairo. Altri centri, oltre a Damasco – dove in prossimità della Porta Orientale (Bab Sharqi, in arabo) si trovano alcune chiese ed una forte presenza armena – sono Deir al-Zor, Kesab e Latakia, fra gli altri. In larga parte discendenti dei sopravvissuti al genocidio armeno del 1915, gli armeni avevano saputo adattarsi e in molti casi distinguersi e prosperare nelle varie fasi storiche del XX secolo siriano, dal mandato francese all’indipendenza, fino al regime baathista degli al-Assad.

 

A chi si fosse trovato a visitare Aleppo e Damasco anche pochi mesi prima dell’inizio dei disordini degenerati poi in guerra civile, sarebbe parsa subito evidente la forte integrazione della compenente cristiana e armena all’interno della società siriana: quartieri decisamente più prosperi rispetto alla media cittadina, con ottimi ristoranti e boutique hotel, consumo d’alcol in pubblico e una frequente esibizione di simboli religiosi all’aperto non erano che i segni più evidenti di un panorama sorprendente nel contesto del Medio Oriente contemporaneo. Ciò che colpiva di più, peraltro, era la forte interazione fra le diverse comunità religiose: mi sorprese vedere, ad esempio, come il Natale – l’ultimo, prima dell’inizio della guerra – fosse un’occasione di festa non solo per cristiani, ma anche per i musulmani siriani, e ricordo distintamente come le musiche natalizie invadessero allegramente i vicoli della città vecchia a Damasco.

Appena pochi mesi dopo, a partire dal marzo 2011, iniziò un’inarrestabile escalation che portò dalle proteste iniziali all’esplodere di un conflitto che finì per coinvolgere – più o meno indirettamente – tutte le maggiori potenze regionali (e mondiali). Ma il dramma per la maggioranza degli armeni siriani ebbe inizio più tardi, in particolare con l’insorgere della battaglia di Aleppo nel luglio 2012. Da allora, c’è stato un flusso lento ma costante di profughi sia via terra (in macchina o in autobus) sia in  aereo, grazie ai voli di Syrian Air e, fino a poco tempo fa, di Armavia, che collegano i due paesi. A partire dal quel periodo si registrano, nella stampa armena, i primi articoli sui profughi giunti a Erevan. I numeri riportati dai giornalisti in quei mesi oscillavano fra le 2.000 e le 3.000 persone. Oggi, a distanza di poco più di un anno, si parla invece di oltre 10.000 profughi, a testimonianza dell’ulteriore inasprirsi del conflitto che vede sempre al suo centro Aleppo, “madre di tutte le battaglie”, contesta fra le truppe fedeli ad Assad e i vari gruppi ribelli.

Particolarmente drammatiche sono le condizioni degli oltre 2 milioni di cristiani presenti oggi in Siria, anche dato l’intensificarsi dell’estremismo religioso fra i ribelli, che identificano oltretutto i cristiani come fedeli sostenitori del regime. Il che, beninteso, nella maggioranza dei casi è verissimo, ma il punto sarebbe piuttosto chiedersi se le forze dell’opposizione abbiamo mai posto loro una possibile alternativa. Padre Raymond Moussalli, vicario patriarcale della Chiesa Cattolica in Giordania, in un’intervista riportata sul sito Catholic Online, è categorico a questo proposito: «Se le truppe governative abbandonano Aleppo, i cristiani saranno massacrati». Simili timori sono assai diffusi anche fra i profughi in Armenia, che tendono ad identificare in una vittoria di Bashar al-Assad l’unica speranza di una normalizzazione e di un loro possibile ritorno in Siria.

E la memoria ha naturalmente un ruolo importante nella vita di queste persone. Non solo perché molti fra famigliari e amici ancora si trovano in Siria, e spesso in condizioni assai precarie, ma anche perché più si allontana la possibilità concreta di un ritorno in patria, più grande è la nostalgia. Così, se una mostra fotografica qui a Erevan ha di recente riportato alla memoria i fasti della vecchia Aleppo, non mancano caffé e ristoranti sirani dove incontrarsi e discutere di politica davanti alla tradizionale pipa in vetro di un narghilè. I loro racconti sono duri, a tratti sconcertanti, e parlano delle efferatezze dei “terroristi”, di bunker sotterranei predisposti dalla Chiesa in cui nascondersi in caso di attacco; parlano degli “stranieri” giunti a distruggere il ben riuscito melting pot siriano, e dei loro timori per quelli che rimangono.

Non semplice è anche la loro condizione nella giovane repubblica post-sovietica, nonostante gli sforzi dello stato armeno e i sussidi stanziati da Kuwait, Austria e Germania, fra gli altri. Qui i profughi si trovano a fronteggiare innanzitutto difficoltà a trovare lavoro, in un paese dove alcune stime parlano di poco meno di un 20% di disoccupazione. E, anche qualora un lavoro lo si trovi, il più delle volte è decisamente al di sotto delle aspettative, sia per il tipo di lavoro (molti laureati sono impiegati nella vendita al dettaglio), sia per i salari decisamente bassi. Secondo uno studio pubblicato dalla Fondazione Kololian, il 77% dei profughi armeni siriani sarebbe laureato, mentre solo il 59% avrebbe trovato lavoro in Armenia.

Altra questione cruciale è l’alloggio: se molti fra coloro che se lo potevano permettere hanno semplicemente affittato un appartemento nella capitale, non mancano le iniziative governative per contribuire a fornire loro un alloggio. I siti previsti per le nuove costruzioni si trovano nelle cittadine di Ashtarak, Etchmiadzin e Masis. In un sobborgo all’estrema periferia occidentale della capitale, con vista sul biblico Ararat, vi è poi, quasi ultimato, un piccolo quartiere ad essi riservato dal roboante nome di Nuova Aleppo. Altri profughi sono stati stanziati invece nel territorio conteso del Nagorno Karabagh, provocando il 2 ottobre di quest’anno una protesta ufficiale da parte dell’ambasciatore dell’Azerbaijan alle Nazioni Unite. Inutile dire come l’incombere del rigido inverno caucasico desti una forte preoccupazione per la fascia economicamente più debole di questi profughi, alcuni dei quali già ricorrono da mesi ad organizzanizioni non governative per trovare di che vivere.

Unitamente a queste difficoltà vi è poi la questione linguistica. Già partire dagli inizi dell’Ottocento, andarono delineandosi in corrispondenza dei due maggiori centri della cultura armena di allora, Costantinopoli e Tiblisi, le due variani linguistiche dell’armeno moderno. La prima, il cosiddetto armeno occidentale, parlata nei territori ottomani e, all’indomani del 1915, dalle comunità della diaspora. Il secondo, l’armeno orientale, nel Caucaso meridionale e nella Persia. Tale differenza divenne ancora più netta dopo la formazione della Repubblica armena sovietica, e ulteriormente sancita da una riforma ortografica nel 1922. Gli anni della guerra fredda non fecero che rendere più profondo questo solco. Capita così di assistere, nelle Erevan di oggi, a curiose scenette di incomprensione linguistiche fra parlanti di quella che, a tutti gli effetti, è tuttora considerata essere un’unica lingua. Il divario è talmente profondo che si è reso necessario attivare corsi di armeno orientale pensati appositamente per gli armeni siriani.

Ma non finisce qui: un gruppo di armeni siriani han ben pensato, per migliorare le possibilità lavorative e d’integrazione, di frequentare corsi di russo negli uffici della Rossotrudnichestvo di Erevan, ridestando l’orgoglio di The Voice of Russia e le conseguenti ire di alcuni nazionalisti armeni che, citando l’articolo 12 della Costituzione della Repubblica Armena, fanno notare come la lingua ufficiale dello stato sia l’armeno, che è uno e indivisibile, e che il russo in ogni caso vada lasciato perdere. Ma la realtà è un’altra, e il russo è tutt’ora stabilmente la seconda lingua nel paese: forse non più strettamente necessario come un tempo, ma quantomeno assai raccomandabile per una piena integrazione nella società armena contemporanea.

Un ultimo aspetto importante concernente le lingue è quello della scolarizzazione. Un risposta, almeno limitatamente alla capitale, è costituita dalla scuola Kilikia, che lo scorso anno scolastico ha impartito a oltre trecento studenti armeni siriani lezioni in arabo e in armeno occidentale, ad imitazione del sistema delle scuole armene in Siria, curando al contempo programmi di socializzazione con i loro coetanei della capitale.

In conclusione, questa nuova tragedia della diaspora armena può rappresentare per alcuni aspetti anche un’opportunità importante di acculturazione, non solo per i profughi, che si trovano a lottare per l’intergrazione in una società al contempo a loro familiare e estranea, ma anche per la giovane Repubblica, per troppo tempo costretta ad un forzato isolamento culturale dal resto del mondo armeno. La buona riuscita di questo laboratorio d’integrazione potrebbe contribuire a rinsaldare un legame antico, a far tacere vecchie incomprensioni, e avere in futuro esiti imprevedibili, anche da un punto di vista linguistico.