Giorgio Bronzetti

Lettera a Sergio Romano, ancora una volta molto categorico, ma in fondo non a cuor leggero, su come si capiranno gli uomini nel futuro.

Egregio Sergio Romano, qualche giorno fa Ella sotto il titolo profetico “Perché l’esperanto non sarà la lingua del mondo” ha voluto ribadire il Suo convincimento che la lingua del futuro sia quella inglese, per la sua bellezza (curioso concetto questo della bellezza riferito a una lingua), importanza della letteratura, numero di parlanti e dinamismo sociale, economico e culturale, che sono per Lei i fattori perché una lingua si diffonda universalmente. D’accordo per la previsione del tutto pacifica per l’inglese, ma solo in quanto lingua della potenza egemone dal punto di vista politico-economico e quindi come tale destinata a prevalere, a prescindere del tutto da altre qualità. E purtroppo, cosa che Ella non dice pur essendone cosciente, destinata a distruggere lentamente ma inesorabilmente le altre lingue e culture.

Nel capitolo dal titolo E’ con Babele che inizia la libertà del suo libro “La Lingua e il tempo”, opera poco nota del 1983, Ella esprime inquietudine per la riforma dell’allora segretario di Stato francese all’Educazione J.Pelletier che proponeva ai francesi la conoscenza perfetta di una lingua straniera perché utile ed afferma: “Ma se il criterio di utilità deve essere all'origine delle nostre scelte, perché noi ci ostiniamo a parlare una lingua materna che per noi è sempre meno "utile"? Le comuni­cazioni commerciali e scientifiche, le prenotazioni, i messaggi fra le torri di controllo e gli aerei, i codici di telescrittura e dei calcolatori elettronici, la giungla semiotica che attraversiamo tutti i giorni fra home e business, tutto è in inglese. Noi non abbiamo che da imparare "perfettamente" questo gergo passe-partout: il mondo ci apparterrà.” In sostanza quello che oggi Lei sostiene con convinzione, almeno apparente, allora lo faceva inorridire, facendoLe dire: “ Ma questa considerazione… lascia intravedere un mondo uniforme parlante la stessa lingua ed accettante nella vita quotidiana e sociale i codici comportamentali di cui una lingua è portatrice”. E quindi Ella chiariva, caro ambasciatore, come uomo di cultura e civiltà democratica quale doveva essere l’approccio verso una lingua straniera: “ Ora io penso che la scelta di una lingua straniera dovrebbe essere dettata non solo dalla sua "utilità", ma soprattutto dal desiderio di conoscersi meglio per rapportarsi con gli altri. Bisogna imparare le lingue straniere per differenza di pensiero e non di uniformità. Smettiamo di piangere l'età d'oro che avrebbe preceduto la torre di Babele, perché è a Babele, al momento stesso dove le lingue si sono separate, che la libertà culturale inizia. Se Dio - un Dio parlante inglese, senza dubbio - crede di punirci privandoci di uniformità, si è ingannato. La resistenza contro tutti i dogmi e tutte le egemonie co­mincia quando un uomo può dire al suo interlocutore: io non ti capisco, tu non parli la mia lingua”.

Ma col tempo, nonostante la Sua adesione al manifesto in difesa della “bella lingua”, il criterio dell’utilità non viene più da Lei trattato con ironia e la Sua scelta è netta. Rispondendo ad una lettera di un lettore che pretendeva di convincerLa sull’esperanto in due righe (Panorama del 14/4/01)

Ella affermava: ”una lingua comune non serve” dato che c’è già ed è l’inglese perché “il linguaggio moderno delle comunicazioni, della gestione aziendale, della finanza, dei trasporti internazionali, dell’informatica e della tecnologia è l’inglese, gli altri finiranno per assorbire un numero crescente di parole inglesi nel loro linguaggio quotidiano. Creare parole nuove in laboratorio allo scopo di esprimere un concetto per il quale esiste già una parola originale, che molti conoscono, diverrebbe un esercizio astratto”. In sostanza, esperanto a parte, non serve tradurre nelle lingue nazionali i termini sfornati di continuo dal mondo anglosassone e la legge sulla privacy deve essere considerato un fiorellino della nostra civiltà giuridica, come question time di quella politica ed il cartello “Realizzazione nuovi layout” posto davanti ad un edificio pubblico in ristrutturazione sta ad indicare uno Stato illuminista. Chi rifiuta termini come desktop, download, upload (anche se ci sono schermo, scarico e carico e dal contesto si capisce che si tratta di informatica) e tanti altri? Ma la pausa è diventata un break, il sacco a pelo sleepingbag e di questo passo il pane sarà bread e il vino wine, inesorabilmente. Il Suo collega Alberoni titolava “Chi rinuncia alla sua lingua perde anche l’anima” un suo articolo sul Corriere cogliendo la drammaticità del problema. Per quanto riguarda l’esperanto non vi sarebbe alcuna difficoltà ad aggiornarne la terminologia senza bisogno di inventare nuove radici, se fosse questo il problema.

Lo stesso convincimento pro lingua inglese Ella ribadiva sulla stessa testata il 15/7/04 a pag. 21 aggiungendo che l’uso dell’inglese nel mondo “non è dovuto soltanto alla fortuna dell’Impero britannico nell’Ottocento e all’emergere della potenza americana nel Novecento. E’ il risultato della scelta spontanea e ragionevole di parecchie centinaia di milioni di uomini, fortemente attratti dalla prospettiva di allargare, grazie alla conoscenza di una lingua veicolare, la gamma dei loro contatti e delle loro esperienze”. A me non sembra tanto spontanea la scelta dell’inglese se non esistono scuole in cui non si insegna e, dato che le ore riservate a tale lingua non sembrano sufficienti, ci si sta attrezzando per insegnare in inglese full immersion altre materie, cosa sempre più frequente nell’università. Se tale lingua viene richiesta in ogni tipo di concorso pubblico, se presso le istituzioni europee vige addirittura la preferenza per i candidati “english mother tongue”, se per i trattati SAPARD le relazioni tra i paesi dell’est neomembri dell’Ue è obbligatoria la lingua inglese e così per tante altre situazioni in cui si privilegia tale lingua, spinta, inoltre, da un esercito infinito di operatori del British Council, USIS e simili che ne fanno il maggior business del mondo angloamericano.

Per fortuna che Ella aggiunge “Sappiamo che il dominio dell’inglese nella comunicazione internazionale ha effetti negativi sulla vitalità e sulla diffusione delle grandi lingue nazionali” (senza però parlare dell’effetto distruttivo di culture), il che dimostra ancora una volta che il problema della comunicazione internazionale non La lascia indifferente. Attualmente che l’esperanto non sarà la lingua del mondo non ci vogliono, rebus sic stantibus, grandi doti divinatorie a predirlo, ma perché non prova ad approfondire l’argomento senza preclusioni, non dando nulla per scontato, e credendo alla forza delle idee e alla potenza degli attuali mezzi di comunicazione di massa con i quali sono possibili vaste operazioni di informazione e sensibilizzazione sul problema, per diffondere un maggiore rispetto verso la propria lingua ed arginare l’invadenza dell’inglese. Non escludendo, naturalmente, l’opzione esperanto, lingua ormai ben collaudata, che ha dalla sua oltre alla non pericolosità per le culture anche una estrema semplicità.

La saluto cordialmente

Giorgio Bronzetti Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Coordinatore dell’associazione “Allarme Lingua” (www.allarmelingua.it ) che ha preso diverse iniziative contro la discriminazione linguistica e in difesa dell’italiano, tra cui la promozione del DDL 3539 per l’istituzione della Giornata della Lingua Italiana ora al Senato e direttore dell’agenzia Disvastigo, notizie sul problema della comunicazione linguistica internazionale (www.disvastigo.it ).