Brian Moon

 

o preso come tema della mia relazione "La comunicazione in Europa: ideali e realtà", perché è abbastanza interessante riflettere su che cosa ci si possa ragionevolmente proporre come situazione ideale di comunicazione, da perseguire in vari modi. Se uso così la parola "ideale", ciò non significa che io sia necessariamente un idealista contrapposto alla realtà pratica. Uso la parola "ideale" nel senso di "modello a cui tendere", ed è evidente che ciò a cui noi tendiamo e che noi promuoviamo per mezzo dell'esperanto e in relazione ad esso, è effettivamente un modello di una migliore o per quanto possibile buona comunicazione internazionale.
Ma debbo anche fare un altra notazione iniziale, che mi è imposta da qualcosa che ho udito ieri. E necessario sottolineare fortemente che la premessa base di tutto ciò che dirò oggi è che una lingua è un valore in sé stessa: noi tutti forse di tanto in tanto argomentiamo che infine una lingua è solo uno strumento, che è una cornice in cui possiamo mettere quello che vogliamo; però in effetti tutto il quadro culturale che si ha del mondo dipende dal fatto che le diverse lingue in sé stesse sono parte della cultura che esprimono. E per riprendere una metafora che ho sentito ieri, la lingua non è come lo scalpello di Michelangelo; la lingua è come il marmo di Michelangelo. Se fate la stessa statua con un altra pietra, sarà un altra opera d'arte. Tutta l'azione a favore e per mezzo dell'esperanto ha senso solamente se noi miriamo a raggiungere, con esso, una cultura di altra specie rispetto a quella possibile con le sole lingue etniche; altrimenti dobbiamo dar ragione a grande parte della restante umanità sul fatto che si comunica in modo del tutto soddisfacente mediante l'inglese, e chiudiamo bottega.
In effetti ci si può chiedere, del tutto legittimamente, come Zamenhof vedeva tale questione. La risposta è, a mio avviso, che, se una lingua fosse solo uno strumento, senza un particolare valore culturale in sé, Zamenhof non sarebbe mai giunto all'idea di lanciare la sua lingua, perché fu proprio il contenuto emotivo e non solo quello linguistico del conflitto delle lingue nella sua regione, che creava gran parte dei problemi, che lui voleva risolvere creando l'esperanto. D'altra parte è vero che Zamenhof, che si definiva modestamente iniziatore di un progetto di lingua, non aveva la pretesa che la sua soluzione fosse perfetta sin dall'inizio e ha sempre ripetuto che avrebbe potuto accettare qualsiasi lingua che risolvesse bene il problema. Dobbiamo anche ricordare che nel corso degli ultimi cento anni e ancor più nella seconda metà del secolo molto è cambiato nel mondo, e in effetti ciò che oggi noi vediamo contrapposto al modello esperanto è una situazione del mondo completamente diversa da quella che spinse Zamenhof a creare la lingua.
Cent'anni fa c'erano grande concorrenza e conflittualità tra gruppi linguistici ed era evidentemente necessario cercare in qualche modo di fare chiarezza in quel caos. Attualmente viviamo in un mondo, in cui tale caos si è in effetti chiarito, in un modo che non soddisfa tutti, proprio come abbiamo sentito ieri dall'eloquenza di Claude Piron. L'attuale tendenza all'unificazione nel mondo è qualcosa che non si poteva prevedere cent'anni fa. O forse, per chi studia la storia da un punto di vista sociolinguistico, questo si poteva sì prevedere, ma certamente, per i primi sostenitori dell'esperanto alla fine dell'ultimo secolo, non era una delle considerazioni principali l'idea che un giorno una lingua nazionale effettivamente avrebbe avuto il predominio nel mondo.
Ma veniamo specificamente al mio tema, sulla comunicazione in Europa. Mi piace sempre ripetere, e anche i nostri governi e i nostri uomini politici amano ripetere, che la varietà linguistica e culturale è un tratto essenziale dell'Europa. Forse però si dovrebbe mettere tale asserzione in un quadro giusto perché, se guardiamo il mondo intero, non è tanto evidente che proprio in Europa abbiamo la massima varietà o la massima conflittualità potenziale a causa di tale varietà. Secondo i calcoli che si fanno di solito, ci sono duemila o tremila lingue nel mondo, ma in effetti in Europa ne abbiamo solo alcune decine. Se guardiamo alcuni Paesi, anche piccoli, nel mondo, vediamo che un solo Paese può avere centinaia o anche migliaia di lingue, come la Nuova Guinea; in altre parti del mondo, come in Asia per esempio, in un territorio geografico simile all'Europa, troverete un gruppo di lingue ognuna delle quali è parlata da alcuni milioni o decine di milioni di persone, e tali lingue sono molto più diverse e meno intercomprensibili di quanto siano le lingue d'Europa fra di loro. In un certo senso l'Europa presenta una grande armonia, perché ivi ci sono più lingue della stessa famiglia linguistica, che siamo soliti distinguere a causa di tradizioni culturali, ma che sotto certi aspetti linguistici sono molto parenti fra di loro, fino a essere quasi intercomprensibili. Quello che distingue l'Europa non è tanto l'estrema diversità, quanto il quadro politico-culturale nel quale oggi tale diversità esiste. In contrasto, diciamo, ai grandi imperi multietnici della storia, o in contrasto per esempio alla nascita degli Stati Uniti d'America, ha luogo oggi in Europa un esperimento in qualche modo unico di organizzare degli Stati mediante la creazione dell'Unione Europea, che unisce più Stati nazionali, la maggior parte dei quali ha lingue differenti, che sono lingue ufficiali in quegli Stati. Se si facesse un simile esperimento o tentativo nell'Asia Sudorientale, si manifesterebbe anche là un simile problema di politica linguistica. Ma in questo momento tale questione linguistica è particolarmente acuta in Europa proprio a causa degli attuali sforzi politici per creare l'Unione Europea. Come detto, in un certo senso la nostra diversità di culture in Europa non è tanto marcata in confronto con altre parti del mondo e proprio per questo, in effetti, noi cerchiamo di creare l'Unione Europea, proprio per il fatto che esiste una certa definita cultura comune o una base comune delle culture europee.
Questo per quanto riguarda lo sfondo, e su tale sfondo si può constatare che molti dei nostri dirigenti politici in Europa effettivamente proclamano un certo ideale circa la comunicazione fra le diverse lingue o sulla maniera di superare la barriera linguistica in Europa, e tale ideale porta il bel nome di "multilinguismo". Sarà necessario poi definire un po' più precisamente cosa s'intende per "multilinguismo". Quello che vorrei fare in primo luogo è mettere questa cosa in una prospettiva storica, nel senso che anche qui la presa di coscienza che la diversità è importante, non c'è stata sin dall'inizio. È utile ricordare che quando furono create le prime Comunità Europee, la questione delle lingue non era affatto fra i temi all'ordine del giorno. Esistevano certi atteggiamenti automatici su come si comunica nelle faccende diplomatiche e in generale nelle faccende internazionali, così che nel 1951 fu preparato un Trattato per fondare la prima Comunità Europea, e nel Trattato di Parigi sulla Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio semplicemente c'è scritto "questo Trattato in un solo originale" e le firme. Solo più tardi, dopo aver fondato tale organizzazione di tipo nuovo, ci si trovò nella situazione che, per il carattere dell'organizzazione, si dovettero usare in essa diverse lingue. Fu così che si prescrisse che si sarebbero fatte delle direttive e dei regolamenti che avrebbero avuto applicabilità diretta nei diversi Stati e, da un punto di vista puramente giuridico, questo comportava implicitamente che anche le lingue ufficiali di tali Stati dovessero fin dall'inizio essere usate nella preparazione di tali regole internazionali. Così nacque il servizio nel quale io lavoro come traduttore, cioè il servizio traduzioni della Commissione Europea. Poi fu interessante constatare che alcuni anni dopo, quando furono fondate altre comunità europee - la Comunità Economica e la Comunità per l'Energia Atomica - allora per la prima volta furono esplicitamente menzionate le lingue. Nei Trattati di Roma è scritto esplicitamente "questo trattato, nelle lingue francese, tedesca, italiana, e neerlandese - (in ordine alfabetico neutrale) - tutte ugualmente autentiche" e seguivano le firme.
Da quel momento si dovettero automaticamente aggiungere altre lingue con l'ingresso di altri Stati nelle Comunità. Ma questo non voleva dire che a livello politico si riflettesse veramente sul problema delle lingue. Da un lato almeno per il fatto che avere quattro o sei lingue di lavoro in un'organizzazione non sembrava una sfida troppo grande. Il primo esempio che ho trovato di un qualche tentativo politico di affrontare il problema delle lingue, in effetti viene solo nel 1976, quando il Consiglio fece una risoluzione nella quale si menzionava che l'insegnamento delle lingue potrebbe costituire un opportuno campo di azione comune. Questo era nel quadro di un certo programma di attività sull'educazione. Occorre del resto ricordare che la cultura e l'educazione in via di principio non facevano parte dei campi principali nei quali si prevedeva un'azione comune nella Comunità Europea, ma si aggiunsero poi poco per volta. Creando l'Unione Europea, si vogliono approfondire tali strutture, così che, mentre sulla politica agricola comune o sul diritto al libero scambio di merci effettivamente sono emanate direttive, regola-menti ecc., invece sulle questioni culturali a livello europeo vengono fatte solamente certe risoluzioni dei ministri "riuniti nel quadro del Consiglio", quindi in un quadro abbastanza nebuloso.
Il 1976 fu all'incirca l'epoca in cui cominciai a lavorare nel servizio traduzioni della Commissione Europea, e perciò posso dire per memoria propria di quella evoluzione concettuale che effettivamente si attraversarono varie fasi nella concezione di sé del servizio traduzioni. Negli anni 70 e nei primi anni 80 effettivamente regnava un certo principio che le lingue di lavoro sono sempre uguali, che i documenti ufficiali devono uscire come se ciascuna lingua fosse quella originale - il bellissimo principio dei "nove originali", quando c'erano ancora solo nove lingue ufficiali. Questo in un certo senso è ancora valido, perché dal punto di vista più formale effettivamente tutto quello che esce nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee deve essere ugualmente autentico, che sia in finlandese o in greco o in inglese, ma un po' per volta nel corso degli anni quel bel proclama di uguaglianza si è un po' adattato alla realtà, cosicché sempre più si lavora per consentire tale eguaglianza esteriore, ma non si pensa affatto a un'eguaglianza interna nell'uso delle lingue. Nel frattempo tuttavia proprio negli ultimi anni si sono fatte un po' più frequenti le dichiarazioni ufficiali sull'importanza del multilinguismo. Si trova per esempio nel 1983 quella solenne dichiarazione, divenuta famosa, sull'Unione Europea da parte del Consiglio Europeo (cioè il consesso dei capi di Stato e di governo degli Stati membri), che di fatto fu l'inizio della via verso la firma dell'Atto Unico Europeo e poi del Trattato di Maastricht, coi quali poco per volta si sostituì il concetto principale di Comunità Europea col concetto più ambizioso di Unione Europea. In una dichiarazione di quel tempo i nostri capi di Stato e di governo sottolinearono l'importanza da dare all'insegnamento e all'apprendimento di lingue straniere nel contesto del processo di fusione dei diversi popoli. La cosa più interessante fu che nel 1984 per esempio i ministri della pubblica istruzione e della cultura adottarono delle conclusioni su tale tema, in cui essi convennero di promuovere tutti i passi opportuni per assicurare che il maggior numero possibile di alunni durante la scuola dell'obbligo acquisisca nozioni pratiche di due lingue straniere. E tale frase "nozioni pratiche di due lingue straniere" divenne negli ultimi 10-20 anni in qualche modo il lato ufficiale di quel concetto di "multilinguismo". Il multilinguismo in Europa significa che le istituzioni europee devono usare e usano tutte le lingue ufficiali degli Stati membri - e questo, come ho detto, ha almeno, come imprescindibile motivazione giuridica, il fatto che semplicemente in nessun Paese si può immaginare che un testo non esistente nella lingua nazionale sia direttamente applicabile come legge; vale però anche il principio generale che noi vogliamo in effetti migliorare la comprensione reciproca tra i nostri popoli e questo lo faremo promuovendo lo studio delle lingue, perché il maggior numero possibile di alunni abbia nozioni pratiche, quindi effettive e usabili, di lingue di altri Paesi e non solo di una, ma come minimo di due. Questo, almeno a prima vista, sembra uno scopo del tutto lodevole: suona sempre molto bene, se si dice che si vuole promuovere lo studio di una qualsiasi cosa nei nostri sistemi scolastici, sia che si tratti di lingue, sia di matematica, sia di musica o di qualsiasi cosa. Sarà interessante poi considerare un po' quale sia l'aspetto vero della realtà dopo tali dichiarazioni.
Quelle prime belle dichiarazioni sulla diversità linguistica e culturale e sulla promozione dello studio delle lingue, come ho detto, hanno prodotto fino ad ora almeno un importante programma dell'Unione Europea sull'educazione. Questo fu lanciato nel 1989, quando fu creato il programma LINGUA. Tale programma linguistico mirava proprio, mediante specifici sostegni e sovvenzioni, a raggiungere quegli obiettivi di promozione dello studio delle lingue, creando quindi delle possibilità perché gli insegnanti di lingue si possano perfezionare nei Paesi delle lingue che insegnano, perché si moltiplichino gli scambi di alunni ecc. E interessante constatare un dettaglio nella motivazione di base di tale programma LINGUA, cioè che si parlava dello specifico bisogno di promuovere l'insegnamento e l'apprendimento di tutte le lingue ufficiali della Comunità e anche dell'irlandese e del lussemburghese, perché anche tali lingue hanno un certo ruolo, non al livello giuridicamente più importante della sovranità statale e dell'applicabilità delle leggi, ma certo nell'identità delle relative nazionalità in Europa.
A questo proposito, almeno sulla situazione lussemburghese, potrei raccontare di più, ma per questo manca il tempo. Tale programma LINGUA continua; attualmente è integrato in un programma più ampio di promozione dell'educazione, che si chiama SOCRATES, che fornisce diversi mezzi per aumentare gli scambi di alunni tra i diversi Paesi. Ma forse è utile menzionare che la somma che si dedica a tali azioni ogni anno è attorno al livello di cento milioni di Euro, da cui si può concludere che veramente stiamo parlando di alcune belle decorazioni sulla struttura, non di una messa a disposizione fondamentale di mezzi per risolvere problemi educativi.
Occorre tuttavia proseguire un po' con questa elencazione forse un po' arida, perché proprio durante gli ultimi anni sono diventate più frequenti le occasioni in cui in alcune dichiarazioni o conclusioni dei ministri europei è stata nuovamente sottolineata quell'importanza della diversità culturale e linguistica. Per esempio nel 1993 ci fu di nuovo una grande dichiarazione solenne, in forma di "conclusioni del Consiglio", nel momento in cui si aveva come principale obiettivo politico quello di completare il mercato unico, quindi eliminare finalmente tutti gli ostacoli allo scambio di merci e al libero movimento di persone e di capitali tra gli Stati membri. Nelle conclusioni che prepararono tale obiettivo di un mercato unico completo nel 1993 c'erano cinque obiettivi, e uno degli obiettivi principali era conservare un'Europa multiculturale basata sulla graduale realizzazione di un vero multilinguismo mediante la promozione dell'insegnamen-to delle lingue straniere. Si ha l'impressione che tali frasi comincino ad avere vita propria: più spesso le si ripete, tanto più sono convincenti. E ancora più recentemente nel 1995 di nuovo ci furono alcune "conclusioni" sulla diversità linguistica e il plurilinguismo nell'UE.
Purtroppo non ho cifre su come nella pratica, in quale direzione e con quali priorità, sono stati distribuiti i mezzi finanziari del programma LINGUA, ma ho forte motivo di ritenere che i mezzi non si siano distribuiti veramente in proporzione all'importanza numerica delle diverse lingue in Europa o comunque in conformità a un qualche chiaro concetto dei risultati da raggiungere, se si tratta di quella famosa conservazione della diversità; perché sappiamo come si presenta la situazione dello studio delle lingue nella maggior parte dei Paesi: s'insegnano alcune lingue molto più che altre e, se si creano programmi per promuovere l'apprendimento delle lingue, tali programmi nella maggior parte dei casi vanno semplicemente a rafforzare la situazione esistente.
Ma anche dal mio punto di vista circa un modello auspicabile, una situazione di multilingui-smo in cui ogni cittadino sia padrone non solo della propria lingua materna - ma anche perché no: come minimo di due altre lingue - è del tutto sostenibile, perché effettivamente da un punto di vista pedagogico, da un punto di vista psicolinguistico è anzi abbastanza importante constatare che l'apprendimento di una lingua è di per sé un'attività educativa importante: chi vive in una sola lingua ha di fatto una visione del mondo molto limitata. Insomma imparare altre lingue è un valore, come sempre nei nostri ginnasi tradizionali si sottolineava il valore di studiare il latino; quel famoso esercizio mentale, che lo studio del latino dava o pretendeva di dare, effettivamente aveva una vera base pedagogica, sebbene non precisamente nel senso tradizionale. Se parliamo dei risultati pratici di tale insegnamento scolastico, forse è un'altra faccenda, ma mi sembra che dovremmo un po' ridare risalto a tali valori, non specificamente per il latino o per una qualche altra determinata lingua, ma nel contesto che proprio parlare una seconda lingua in qualche modo dà una libertà essenziale alle persone. Ma voglio però sottolineare che si tratta di parlare una seconda lingua, avere una certa padronanza utilizzabile di tale lingua, non semplicemente studiarla a scuola in modo formale. Poiché le diverse lingue esprimono diversi punti di vista sul mondo, esse fanno in qualche modo da tramite a diverse strutture di pensiero e sono un vero arricchimento, da promuovere, di tutti gli alunni, se essi hanno la possibilità o sono spinti a non restare solamente monolingui. Purtroppo nella maggior parte dei sistemi scolastici tali vantaggi reali dello studio delle lingue restano in gran parte teorici, perché una grande parte degli alunni non supera mai un appena minimo livello di capacità di maneggiare la seconda lingua.
Ma quello che volevo sottolineare è che promuovere effettivamente il multilinguismo nei nostri sistemi scolastici è un fine educativo di alto valore, a condizione che non ci si concentri solamente sulla meccanica dello studio di una lingua nella scuola primaria. E in effetti a questo punto sarebbe utile riflettere su alcuni punti: come diversi pensatori di questioni educative hanno sviluppato tale idea; quale approccio si può avere a tale problema; che non basta far semplicemen-te ripetere alcuni esercizi scolastici su una lingua straniera; che effettivamente la struttura tradizionale dello studio delle lingue nelle nostre scuole, per qualsiasi lingua, è terribilmente inefficace, terribilmente carente di rendimento; ed è di grande interesse, per me almeno, menzionare le tesi di Claude Hagége sull'educazione multilingue. Hagége è un linguista molto noto in Francia, autore di cose linguistiche e sociolinguistiche, e uno o due anni fa pubblicò un libro L'enfant aux deux langues (Il bambino bilingue), in cui egli ha elaborato la tesi che ciò che veramente occorre per conservare la varietà linguistica e culturale in Europa, è sviluppare una vera educazione bilingue nelle scuole, e che ciò deve avvenire già nelle scuole primarie, nell'età in cui i bambini effettivamente possono molto più facilmente approfondirsi in una seconda lingua. Tale sua tesi si basa essenzialmente proprio sul fatto che non si deve far apprendere semplicemente una lingua con alcuni esercizi, ma si deve effettivamente introdurre una seconda lingua, che divenga la seconda lingua attiva dei bambini, cosicché si passi effettivamente ad insegnare loro alcuni argomenti o alcune materie in tale seconda lingua. E quello che più o meno accade in alcune scuole in Europa, in alcune scuole internazionali, dove si prepara la maturità internazionale o nelle "scuole europee" delle istituzioni dell'Unione Europea, dove studiano i figli dei miei colleghi a Lussemburgo, a Bruxelles, a Varese, a Karlsruhe ecc.
L'altro aspetto interessante di quell'argomentazione di Claude Hagége è che assolutamente non si deve insegnare l'inglese in tale quadro, ma che s'insegnino diverse lingue, che ci sia una scelta di lingue possibili tra le principali lingue europee oppure tra quelle lingue europee che hanno anche una dimensione mondiale. Mi sembra che egli prenda le mosse da un punto di vista molto interessante, cioè che per l'attuale situazione nel mondo la lingua inglese tutti la possano acquisire un giorno al bisogno, ma se si vuole promuovere quell'obiettivo pedagogico del multilinguismo e della diversità, si devono promuovere proprio le lingue che la gente in altro modo non studierebbe e che proprio con questo si possono aprire le menti più in generale a tale concetto del valore dello studio delle lingue - precisamente quello che portiamo come argomento per sostenere l'esperanto.
Dunque, ecco uno schizzo su un lato della questione linguistica, che possiamo chiamare un ideale di un modello auspicabile in Europa, secondo il quale tutti effettivamente studino due o tre lingue straniere e tutti abbiano un'effettiva competenza funzionale in più di una lingua. Se questo sia un ideale effettivamente realizzabile, è tutt'altra questione, perché in un contesto veramente multilingue si va un po' nel paradosso, se una persona con lingua materna A impara le lingue B e C e un'altra persona con lingua materna D impara le lingue E ed F ecc. E con evidenza più generale, se guardiamo la realtà scolastica nei nostri sistemi educativi nei diversi Paesi d'Europa, è in qualche modo immaginabile che si possa generalizzare quel sistema di studio delle lingue, che si applica in alcune scuole elitarie d'Europa?
In ogni caso devo parlare un po' della realtà, sebbene abbia l'impressione che rischierei semplicemente di ripetere ciò che Claude Piron molto più eloquentemente ha detto ieri, sul fatto che noi tutti sappiamo come si presenta la realtà della comunicazione internazionale. La realtà della diversità linguistica e del multilinguismo in Europa si presenta in modo che tutte le lingue sono uguali, ma alcune - e specificamente una - sono molto più uguali delle altre. Non direi che noi accettiamo questo, ma ne facciamo esperienza sempre più nella maniera di funzionare dei nostri servizi linguistici nelle istituzioni europee, e del tutto specificamente nei servizi di traduzione.
Se si tratta di interpretazione nelle sedute, i bisogni sono abbastanza diversi, ma sempre più la realtà è che predominano poche lingue di lavoro. Esito a usare questa parola "lingue di lavoro", che ha un significato specifico all'ONU ma non nelle istituzioni europee, dove fin dall'inizio è invalsa l'abitudine di parlare solamente di "lingue ufficiali", che sono tutte in via di principio anche "lingue di lavoro". Ma nella realtà le lingue in cui effettivamente si lavora, sono l'inglese e il francese, e un po' anche il tedesco, e a proposito di ciò si sono potuti leggere nella stampa alcuni particolari ultimamente per un po' discussioni nel quadro dell'attuale presidenza della Finlandia: la questione era se la lingua tedesca poteva essere usata in alcune sedute. Tale predominio di alcune lingue o di una lingua o due, e sempre più di una lingua sola, nel lavoro quotidiano, conduce a un cambiamento essenziale nel modo di funzionare dei nostri servizi linguistici. Noi traduttori di lingua inglese abbiamo tutt'altro lavoro rispetto ai nostri colleghi finlandesi o portoghesi o di altra lingua, perché noi dobbiamo tradurre in inglese - e spesso solo noi siamo coinvolti - diversi testi, che vengono dagli Stati membri, mentre gli altri nostri colleghi devono tradurre nelle rispettive lingue nazionali i diversi testi che vengono prodotti all'interno. Questo solamente per illustrare quella grande tendenza all'ineguaglianza nell'uso delle lingue e questo lo vediamo molto nettamente nei nostri sistemi scolastici, dove in alcuni Paesi è già cosa vecchia che la prima lingua straniera è l'inglese. Tale frase, più o meno, si trovava nel regolamento sull'insegnamento delle lingue nelle scuole tedesche già 25 o 30 anni fa, ma la cosa si va facendo sempre più frequente. Ricordo che questo è stato anche a suo tempo argomento di una controversia diplomatica tra la Francia e la Germania, perché un trattato tra i due tradizionali nemici menzionava anche la promozione dell'insegnamento delle reciproche lingue - principio difficilmente accordabile col predominio dell'inglese nelle scuole.
In ogni caso, sempre più nella pratica la maggior parte dei bambini europei studia l'inglese e solo sporadicamente altre lingue. Diversi ministeri della pubblica istruzione ancora si vantano del fatto che "però da noi s'insegnano 10 - 15 lingue in tutto il Paese", ma ciò significa che in 99 scuole su cento o 999 su mille s'insegna l'inglese, in alcune decine in tutto il Paese s'insegna per esempio l'italiano e in una o due scuole s'insegna persino il giapponese o un'altra lingua esotica.
Un altro grave aspetto di tale realtà - e questo avrei dovuto dirlo sin dall'inizio - è che per molte persone semplicemente non esiste il problema. Dobbiamo renderci conto del fatto che per molti le strutture dell'insegnamento delle lingue nelle nostre scuole, il bisogno urgente per molti giovani di padroneggiare l'inglese pena il fallimento professionale, tutto questo è una situazione accettabile senza problemi. Se si propongono a molti genitori programmi linguistici diversi, diverse possibilità per promuovere l'apprendimento delle lingue da parte dei figli, essi tutti senza esitazione spingono i bambini allo studio dell'inglese, perché questo è evidentemente necessario e in un certo senso hanno ragione. Ma è una constatazione un po' spiacevole che proprio per molte persone in questo non ci sia alcun problema. Si leggono di tanto in tanto - specialmente nella stampa inglese del resto, perché questo in qualche modo piace alle persone di lingua inglese, - diversi rapporti sul fatto che, per esempio, nei Paesi Bassi alcuni propongono ufficialmente che un po' per volta si aumenti il ruolo dell'inglese anche nell'insegnamento universitario; ci fu un certo rapporto alcuni mesi fa, in cui qualcuno prevedeva che, se continua così, fra cinquant'anni l'inglese avrà in Olanda un ruolo più forte dell'olandese stesso.
Questa è una situazione problematica solamente per noi, che facciamo un po' di teoria sulle lingue. Per grande parte del pubblico questa sembra una previsione forse un po' sorprendente, ma non vi si vede un grande problema. E questo deve sempre essere ricordato quando noi ci battiamo per un altro ideale di comunicazione in Europa. Non c'è più una situazione quale c'era al tempo di Zamenhof, quando si proponeva una soluzione a un problema, la cui esistenza era evidente. Con l'esperanto noi proponiamo un modello d'altra specie, che può migliorare diversi aspetti della comunicazione, ma perché l'importanza di tale modello sia più visibile, occorre prima un'importante presa di coscienza, o ripresa di coscienza, dell'esistenza stessa del problema.
Parlando della realtà debbo anche dire tra parentesi che anche da un punto di vista politico-culturale, persino da un punto di vista sociale, per gli anglofoni tale predominio della lingua inglese non è solamente un vantaggio. C'è effettivamente un grande problema educativo secondo me nel fatto che nei Paesi di lingua inglese non si ha bisogno di occuparsi seriamente dell'inse-gnamento delle lingue nelle scuole, perché - proprio come ho detto - l'apprendimento delle lingue in effetti ha in sé stesso un valore educativo e si può constatare quanto s'impoverisca la cultura dei Paesi di lingua inglese, se la maggior parte della popolazione possiede solamente l'inglese. Voglio buttar giù una cifra, per sottolineare un po' le dimensioni del problema. Non è necessario citare cifre su quanti alunni studiano l'inglese in Francia, in Italia o in Germania, in Finlandia o in qualsiasi posto: sappiamo che sono quasi tutti e che, semplicemente per la struttura degli esami di maturità, quasi tutti coloro che finiscono le scuole secondarie con un diploma hanno acquisito alcune capacità in inglese. Io ho fatto un po' di ricerche sulle corrispondenti cifre per la Gran Bretagna, dove non c'è alcun obbligo di presentare una lingua all'esame finale. Le cause di ciò risiedono nella struttura completamente diversa degli esami finali in Inghilterra, così che potete benissimo avere un diploma di scuola secondaria con solamente tre materie di scienza naturali (fisica, biologia, chimica) o solamente con letteratura inglese, matematica e storia, senza toccare alcun'altra materia, ma tuttavia, persino con tale vasta gamma di possibilità di scelta, colpisce un po' che nel 1992 in tutto l'anno scolastico dell'Inghilterra e del Galles ci furono solo poco più di 50000 candidature su una lingua - e questo non significa 50000 individui, perché ci furono anche individui che hanno presentato per esempio sia il francese che il tedesco. Quindi, su una popolazione annua - secondo una stima - tra mezzo milione e un milione di alunni, poco più di 50000 volte qualcuno ha presentato una lingua all'esame finale. Nel 1997 tale cifra era già caduta a 45000, quindi con una caduta del 12-13 per cento in quei 5 anni. Dunque il livello di qualificazione scolastica nelle lingue fra i giovani inglesi è molto basso, in confronto con altri Paesi, ma ricordiamo anche che tali cifre dicono poco sulla vera competenza linguistica; in ogni caso le cifre sullo studio delle lingue fra i giovani inglesi e gallesi sono miseramente basse e tendono persino a diminuire; e questo secondo me è un aspetto grave della realtà attuale.
Vado esaurendo il mio tempo, ma questo in qualche modo non è troppo importante, perché l'obiettivo della mia terza parte era semplicemente quello di sottolineare in cosa consista l'altro ideale, un ideale più realizzabile di quanto lo sia il multilinguismo o l'educazione plurilingue. Esso consiste evidentemente nell'uso dell'esperanto accanto a tutte le lingue nazionali. Vorrei semplicemente sottolineare, per concludere rapidamente, che dobbiamo formulare accuratamente in cosa consista il nostro ideale sull'uso dell'esperanto come mezzo di comunicazione internazionale.
Potremmo per esempio chiamarlo un ideale di unità nella diversità. Unità nel senso che tutti abbiano una lingua comune, diversità perché ciascuno ha anche la propria lingua o anche s'interessa ad altre lingue. E questo implica che tutto ciò che noi proponiamo è di fatto un riordino della gerarchia delle lingue. Quello che noi proponiamo, o dovremmo proporre, è che si devono distinguere i ruoli delle diverse lingue, concepire più chiaramente che esiste il bisogno di una lingua internazionale, interculturale, e che ad altro livello esiste il bisogno e anche il diritto alla propria lingua, che definisce un'identità. Anche ciò è un aspetto sul quale si potrebbe fare tutta un'altra conferenza: qual è il ruolo di una lingua nella formazione dell'identità delle persone e nei diritti a tale identità, e come soddisfare il bisogno delle persone a sentire effettivamente l'appartenenza a un definito gruppo, il che è in sé un valore da difendere nelle nostre società.
Brian Moon (Congresso Esperanto 22/8/99)
Brian Moon, laureato in lingue e letterature straniere in Gran Bretagna, lavora da più di vent'anni nei servizi di traduzione dell'Unione Europea, a Lussemburgo. (Traduzione dall'esperanto di Umberto Broccatelli)