Prefazione


Signore e signori,

sono molto onorato dell'invito a prendere la parola nel Congresso Universale del 2006. Desidero quindi iniziare con l’esprimere i miei ringraziamenti agli organizzatori e tra gli altri al Prof. Renato Corsetti.

Ringrazio anche le persone che hanno partecipato alla traduzione del mio intervento(1). Io invero non parlo esperanto. Riesco a leggere articoli specifici in esperanto (cosa spesso utile nel mio lavoro), ma non a parlarlo. Diciamo che in questo momento io riesco a pronunciarlo, essendo stato invitato a farlo per la prima volta in pubblico.

Se io oggi sono qui, e se Renato Corsetti mi ha gentilmente invitato, la ragione è semplice: lo scorso anno ho redatto, per il Ministero francese dell'istruzione nazionale, un rapporto sull'insegnamento delle lingue straniere. E quel rapporto ha avuto una certa eco nella comunità esperantista.

Ora vorrei parlarne un po’ più a fondo di questo rapporto precisando, poichè la cosa non sempre è stata ben compresa, ciò che esso dice e ciò che non dice. Ciò mi indurrà ad inoltrarmi in un altro tema, cioè quello del possibile utilizzo di tale relazione e dei modi in cui la comunità esperantista, cui io non appartengo, potrà far conoscere il suo messaggio.

 

Le origini del rapporto “L’insegnamento delle lingue straniere”

 

Farò un pò di cronistoria. Alla fine del 2004 sono stato contattato dal Ministero francese per la pubblica istruzione, e più precisamente dal Consiglio Superiore per la valutazione della scuola (Haut Conseil d'évaluation de l'école). Questo organismo (la cui struttura è stata modificata l’anno scorso per decisione ministeriale) è stato incaricato dal ministro di fornire pareri su diversi temi circa la politica e l'amministrazione della pubblica istruzione.

Le circostanze del tempo erano le seguenti: una specifica commissione (la Commissione per un dibattito nazionale sul futuro della scuola, presieduta da Claude Thélot), alcuni mesi prima aveva presentato una imponente relazione di centinaia di pagine con il titolo Per il successo di tutti gli studenti (2)

In questo testo, comunemente indicato dai massmedia Rapporto Thélot, veniva evidenziato l'obbligo per tutti gli studenti di imparare l'inglese, o più esattamente ciò che il suddetto rapporto chiama "la lingua inglese per la comunicazione internazionale". Tale raccomandazione risultava alquanto strabiliante sotto diversi aspetti:

° per prima cosa, essa era contenuta in tre righe: nessuna considerazione, nessun chiarimento, nessuna cifra - soltanto la raccomandazione.

° per seconda, la nozione "lingua inglese per la comunicazione internazionale" non è stata per niente definita. Si tratta della lingua inglese o di una lingua inglese semplificata? Ed in questo caso, semplificata come, da chi, e perchè?

° in terzo luogo, quando si sa che in ogni modo all'incirca il 97% dei giovani

francesi ha già scelto di studiare l'inglese, o come prima lingua o come secondalingua straniera (pressocchè in tutte le strutture scolastiche sono obbligatorie due lingue straniere), perchè dunque imporre lo studio dell'inglese al rimanente 3%?

 

Naturalmente ci si è trovati in una situazione un po’ particolare in cui il ragionamento logico sembrava venisse subordinato a idee precostituite o ad una mera ideologia.

Ebbene il Consiglio Superiore, come abbiamo appena precisato, ha un compito molto chiaro: esprimere per il ministeri pareri relativi alla realizzazione concreta delle direttive che informano relazioni quali il rapporto Thélot. In tal caso Il Consiglio Superiore richiede studi più mirati, come quello a me richiesto riguardo l'insegnamento delle lingue straniere in Francia.

Secondo il mio punto di vista l'aiuto, che io potevo offrire ai francesi, è stato di proporre loro un'analisi critica, persino contestataria, delle direttive contenute nel rapporto Thélot, più che consigli sulle modalità per renderlo operativo.

Comunque ai miei futuri "clienti", quando sono stato contattato, ho detto che non intendevo occuparmi di come insegnare l’inglese (cosa di per sé studiabile in maniera del tutto legittima ma in cui altri sarebbero stati più competenti), bensì che acconsentivo a ricevere il loro mandato solo a condizione di poter studiare i veri problemi e cioè la scelta delle lingue straniere da insegnare e i motivi di questa scelta.

Fin da principio ho anche detto ai miei interlocutori del Consiglio Superiore che molto probabilmente (“probabilmente” perché non potevo prevedere con precisione le mie conclusioni) la mia relazione avrebbe portato alla conclusione finale che la raccomandazione "inglese obbligatorio per tutti" fosse pericolosa per la sua inefficienza (secondo i parametri di attribuzione delle spese), e ingiusta (secondo i parametri di distribuzione delle spese). In altre parole li avvertii che la mia relazione avrebbe rischiato di disperdere delle "vacche sacre". Ma essi accettarono le regole del gioco, e perciò io rendo omaggio al presidente e al segretario generale del Consiglio superiore che hanno permesso questo dibattito intellettuale e mi hanno incaricato di effettuare un'analisi, che mi avrebbe trascinato molto più lontano di quanto avessi immaginato all'inizio.

 

Metodo e risultati: alcuni punti importanti della relazione

 

Chiaramente il tempo a disposizione non ci consente di entrare nei dettagli della relazione: inoltre essa ormai è già stata dibattuta all'interno della comunità esperantista e, probabilmente, alcuni di voi già la conoscono. Toccherò pertanto soltanto alcuni punti essenziali che concernono il metodo e i risultati (3). Il metodo adottato si basa sulla comparazione fra tre scenari di comunicazione nel contesto dell'Ue. Nell'ambito di tale quadro la sfida risultava a sua volta molteplice:

in primo luogo, sul piano concettuale, gli scenari, sebbene spesso accennati, sono raramente descritti secondo metodi rigorosi che rendano possibile il confronto. Di conseguenza, si doveva cominciare con la presentazione dei diversi scenari possibili.

In secondo luogo, sul piano metodologico, i criteri di confronto non sono rigidi e perciò bisognava elaborare e giustificare tali criteri.

In terzo luogo, sul piano empirico, i dati necessari per il raffronto generalmente non esistono e bisognava sviluppare una strategia di valutazione per avvicinarci a quella realtà.

 

Scenario 1: "solo inglese". L'UE (a livello sovranazionale o statuale) esprimerebbe una scelta in un ambiente linguistico fortemente anglicizzato, in cui l'inglese godrebbe di una posizione egemonica (4). Alcuni dicono che tale scenario di fatto è ormai in via di realizzazione (5). Io sono in gran parte d’accordo, con alcune riserve però circa le conseguenti conclusioni.

 

Scenario 2: plurilinguismo. L’Europa mirerebbe a una comunicazione veramente plurilinguistica. Questo percorso sarebbe abbastanza vicino al motto ufficiale europeo, che incessantemente gli addetti ai lavori dell'Ue ribadiscono (6). Il plurilinguismo servirebbe quindi per evitare l'egemonia di una lingua unica. Ma per la nostra conoscenza della macrodinamica delle lingue è molto difficile assicurare un plurilinguismo sostenibile sia nella sostanza e sia nella durata. Ciò è possibile soltanto in presenza di sufficientemente forti organizzazioni collaterali.

 

Scenario 3: esperanto. Si presuppone che tutti imparino e usino l'esperanto, o che tale lingua venga usata quale "relé" (lingua-ponte), nelle traduzioni e nella attività degli interpreti.

 

Prima di passare ai risultati in cifre, sono necessarie due considerazioni:

 

1) - un confronto dettagliato fra i tre scenari sarebbe troppo difficile da realizzare, principalmente nel tempo limitato concesso dal Consiglio Superiore, e perciò ho preferito un approccio semplificato, che intenzionalmente tralascia tutti gli aspetti sociali e culturali. I dati risultanti dalla ricerca sono dunque approssimativi e non hanno altra ambizione che quella di fare un primo passo. Ho scelto sistematicamente la prudenza e molto probabilmente i trasferimenti di denaro derivanti dall'egemonia linguistica sarebbero più alti di quanto io riferisco.

 

2) - Alcuni addurranno, non senza ragione, che noi già sappiamo che l’egemonia linguistica non è giusta e anche se ciò è un pò difficile da provare, molti di noi ne avvertono inoltre l'inefficacia. Tuttavia bisogna tener presente che le masse in generale non ne sono consapevoli. Se dovessimo un giorno orientarci per una comunicazione più efficiente e più giusta, sarebbe utile fornire dei dati quantitativi dell'ammontare dei trasferimenti di denaro risultanti dall’egemonia linguistica e su tutto ciò che si potrebbe evitare adottando altre forme di comunicazione. Tale informazione potrebbe stimolare il pubblico e gli organi decisionali a esaminare più attentamente le alternative all'inglese.

 

Per andare direttamente al nocciolo della questione ricordiamo semplicemente che una egemonia linguistica a favore di una lingua “egemonica” o “predominante” produce cinque tipi di trasferimenti di denaro e cioè:

 

1 – l’effetto "mercati privilegiati". I parlanti dalla nascita la lingua egemone godono di un quasi monopolio nel mercato delle attività di traduzione e di interprete, nell'insegnamento della medesima quale lingua straniera (almeno da un certo livello), nei servizi collegati (soggiorni linguistici, etc.) e nella produzione e revisione di testi, tutti compiti per i quali è generalmente necessaria una padronanza della lingua dalla nascita.

 

2 – l’effetto “risparmio della comunicazione”: coloro, la cui lingua materna è quella dominante, possono risparmiarsi la fatica di tradurre i messaggi a loro inviati da corrispondenti usanti altre lingue, poichè questi ultimi avranno già fatto lo sforzo di esprimersi in detta lingua. Ugualmente coloro, la cui lingua materna è la lingua dominante, non avranno bisogno di tradurre i propri messaggi in altre lingue;

 

3 – l’effetto "risparmio nell'apprendimento di lingue straniere": i parlanti dalla nascita la lingua dominante non hanno bisogno di investire tempo e denaro nello studio di altre lingue, il che costituisce un enorme risparmio. Malgrado i grandi sforzi degli stati, impegnati nell'insegnamento delle lingue straniere, l'apprendimento di queste rappresenta insomma, per tutto il periodo

preuniversitario, da 1500 a 2000 ore circa di insegnamento e praticantato (compresi i compiti a casa). Infine i risultati raggiunti rimangono insoddisfacenti, poichè la media dell'istruzione e del praticantato necessari per conseguire (nel caso dell'inglese) un livello di competenza comparabile con quello dei fruitori dalla nascita è valutata in 12.000 ore (7); ciò non è senza conseguenze grazie al quinto effetto (vedi sotto);

 

4 – l’effetto " investimento alternativo in capitale umano": il denaro non investito nella comunicazione con altri ambienti linguistici (ad es. attraverso l'acquisizione di una lingua straniera) può essere rivolto altrove, tra l'altro verso altre forme di investimento in capitale umano, così procurando vantaggi in altri settori ai parlanti della lingua egemone;

 

5 – l’effetto "retorica e legittimazione": i parlanti dalla nascita la lingua dominante saranno avvantaggiati nei casi di trattative e conflitti con i parlanti tale lingua non dalla nascita particolarmente poiché queste trattative e conflitti avvengono nella loro lingua.

 

Ai fini della valutazione di questi effetti nei tre diversi scenari ho preso come base comparativa una situazione senza egemonie linguistiche, e ho calcolato i trasferimenti di denaro risultanti dall'attuale predominio dell'inglese. E' molto credibile che i trasferimenti sarebbero più alti se l'Europa scegliesse lo scenario 1, cioè una comunicazione internazionale esclusivamente in inglese.

 

I calcoli danno la notevole cifra di almeno dieci miliardi di euro all'anno. Per un confronto ricordiamo che il famoso sconto, di cui dal tempo di queste linee la Gran Bretagna gode nel suo contributo al bilancio dell'Ue (e su cui si è avuto un aspro dibattito tra gli stati membri nell’anno 2005) raggiunge i 5 miliardi di euro l'anno. Di conseguenza i trasferimenti diretti, di cui la Gran Bretagna profitta, superano di molto quella cifra essendo più alti almeno del doppio, anche nelle ipotesi più limitative da me qui fatte.

Se si considerano gli effetti moltiplicativi e le rendite delle somme risparmiate grazie all' egemonia linguistica arriviamo a circa 16 o 17 miliardi di euro l'anno. Sottolineiamo di nuovo che si tratta di valutazioni prudenti che trascurano degli elementi molto importanti di questi trasferimenti (8). Tra l'altro tralascio qualunque valutazione dell’effetto "retorica e legittimazione".

 

Tuttavia il risultato principale rimane: concedendo all'inglese una condizione privilegiata, gli stati europei (ad eccezione dell'Irlanda) trasferiscono di propria volontà, anche se incoscientemente, almeno 10 miliardi di euro l'anno alla Gran Bretagna, e certamente molto di più. Cioè una somma che in qualunque altro campo della vita politica ed economica sarebbe stata da molto tempo denunciata come una evidente ingiustizia.

 

Considerando queste cifre, una egemonia linguistica (a favore dell'inglese o di qualunque altra lingua naturale) può essere considerata come una soluzione grandemente ingiusta e inefficace. Quando tali dati saranno maggiormente precisati - e di ciò essi hanno bisogno - potranno forse aiutare i governanti e le masse a comprendere che le soluzioni alternative al "solo inglese" sono da esplorare attentamente.

 

Ciò mi porta alla richiesta di possibili raccomandazioni, al ruolo dell'esperanto in tali raccomandazioni e alla maniera di farle conoscere.

 

Quali raccomandazioni... e quali strategie?

 

E' il momento di tener presente chiaramente un punto del mio rapporto: esso non raccomanda l’adozione generale dell'esperanto. Esso raccomanda la scelta del multilinguismo, che è una strategia complessa, in cui può trovar posto l'esperanto. Non è la stessa cosa e devo dire che il modo in cui alcuni esperantisti hanno usato il mio rapporto costituisce per me un problema.

A chiarimento del mio pensiero preciso la mia scelta ideologica da cui parto. Io tengo alla diversità. Io amo la diversità e l'uniformità rappresenta dal mio punto di vista un vero incubo. Naturalmente non si tratta di una visione ingenua e semplicistica della diversità. La diversità contiene in sè alcunchè di paradossale: essa è nello stesso tempo minacciata e minacciante, ma io credo che corrisponda ad un bisogno vitale dell'uomo. I miei primi lavori di giovane ricercatore hanno trattato la difesa di lingue minoritarie, il gallese o il gaelico della Scozia. Da più di 12 anni faccio parte di associazioni della comunità di lingua francese (francophonie) e sono membro della "Delegation à la langue française" della Svizzera francese. Mi sono anche interessato alle lingue degli immigrati, dedicandomi in modo particolare a coniugare il sostegno delle lingue minoritarie “autoctone” e i diritti linguistici che possono essere riconosciuti alle lingue degli immigrati.

 

Il tratto comune, "il filo rosso" di questi interessi, è la diversità linguistica.

Io non mi interesso delle lingue minoritarie (come il romancio del mio paese) da un punto di vista strettamente culturale o di identità, ma perchè esse costituiscono degli elementi che contribuiscono a creare la diversità. Nella stessa maniera io ritengo (e questo lo ripeto ovunque) che la difesa della lingua francese non ha senso se non dal punto di vista della difesa della diversità; e per evidenti motivi politici e geografici la lingua francese svolge un ruolo centrale in questa difesa. Sempre seguendo la stessa logica io non ho assolutamente nulla contro la lingua inglese, una lingua che io amo moltissimo, lingua in cui ho vissuto quando stavo negli Stati Uniti e la lingua della maggior parte dei romanzi che leggo per mio diletto. Lo stesso inglese è una parte importante della diversità.

 

Il mio rapporto con l’esperanto rispecchia lo stesso stato d'animo. L’esperanto è un contributo alla diversità per due motivi: è una seconda lingua, brillantemente originale per flessibilità e fecondità morfologiche e sintattiche. Inoltre è una lingua il cui uso può contribuire a contrastare l'egemonia linguistica. E secondo tale punto di vista sono pervenuto alla conclusione, nel mio rapporto, di dover prendere in considerazione l’esperanto nelle mie raccomandazioni. Ma al contrario, e diversamente da quanto afferma Claude Hagège nel suo ultimo libro, io non raccomando l’adozione dell'esperanto come "lingua dell'Ue" (9).

 

L'esperanto è indubbiamente la migliore soluzione da un punto di vista dello studio e per quanto riguarda il funzionamento interno delle istituzioni comunitarie. Ma il funzionamento interno di queste istituzioni è una cosa, la vita sociale, politica, economica e culturale degli europei è un’ altra cosa. L'esperanto ha certamente un ruolo da svolgere ma io vedo questo ruolo come elemento di una strategia per la diversità, in cui ha importanza l'uso di più lingue materne -più l’esperanto laddove la diversità non è abbastanza garantita dalle lingue naturali per motivi di dinamica linguistica su cui ora non tornerò.

 

D'altra parte l’esperanto, e tutti qui lo sanno, è oggetto di ogni genere di pregiudizi. Non si può non tenere conto di questo dato di fatto quando si stilano delle raccomandazioni di politica linguistica.

 

Ecco, quindi, il momento di tornare al mio primo incarico di ricercatore di politica linguistica, o di consulente, che ho avuto l’anno scorso dal Consiglio superiore per la valutazione della scuola: in qualità di consigliere, non è mio compito dire ai miei clienti ciò che devono fare o non fare. Il mio compito è di dire : “se voi fate questo ecco le conseguenze che potete aspettarvi e se fate questo ecco quali saranno le altre conseguenze; dovete scegliere secondo le vostre priorità ideologiche e politiche ma spero in una situazione di migliore conoscenza grazie all’analisi che vi ho fornito”.

Se è chiaro questo punto, sarà ugualmente chiaro che se avessi raccomandato l'uso dell’esperanto per ogni circostanza, non avrei portato a termine il mio incarico, perché tale raccomandazione non si sarebbe potuta fare secondo la logica se non ignorando il suo carattere non realistico dal punto di vista politico.

 

Devo pertanto sottolineare che mi dispiace che alcuni, principalmente all'interno del movimento, hanno voluto farmi dire cose da me non dette e far apparire la mia relazione come pura e semplice assunzione del punto di vista favorevole all’esperanto. L'esperanto mi piace e, contrariamente alla maggioranza dei miei colleghi, non ho alcun pregiudizio nei suoi confronti, ma mi dispiace che taluni hanno fatto svanire tutte le sfumature del mio pensiero. Un comportamento che i francesi definiscono da “ elefante in un negozio di ceramiche" e ciò non può non presentare qualche problema per me. Effettivamente qualche volta sono costretto ora a prendere le distanze pubblicamente dall’esperanto! Si tratta in ogni caso di un’assurda conclusione quando credo di essere una delle rare voci, al di fuori del movimento, che per i risultati dell’evidenziazione dei vantaggi e svantaggi delle diverse possibilità di scelta, hanno ricordato il contributo che può portare l’esperanto.

Ma questi piccoli spiacevoli inconvenienti personali non hanno importanza. Vorrei preferibilmente concludere con l'eterna domanda: come far progredire l'esperanto?

 

Si tratta evidentemente di una domanda a cui ciascuno risponderà secondo le proprie convinzioni e interessi. Ma ciò non ci impedisce di porci il problema dell’efficacia di alcune forme di propaganda. A tal proposito, senza entrare in particolari che prenderebbero troppo tempo, vi presento alcune considerazioni su cui riflettere.

Anzitutto non dimentichiamo che l'esperanto è attualmente una lingua senza prestigio. Mentre molte lingue minori sono riuscite a reinventarsi e ad offrire un’immagine di sé positiva, persino di moda, l’esperanto resta un caso disperato. Mentre le lingue degli emigrati stanno per ricevere una qualche forma di legittimazione politica, in modo particolare nei sistemi educativi, l’esperanto viene sempre percepito da gran parte dell'opinione pubblica e dai mezzi di comunicazione come un capriccio senza fondamento. Ciò è spiacevole, certamente è frutto di ignoranza, ma si tratta di un fatto socio- linguistico.

Di conseguenza non si può portare avanti l’esperanto come se non esistessero questi pregiudizi e , se è vero che bisogna informare, ciò non si può fare in un modo qualsiasi. Perciò è inutile, se non dannoso, rivolgersi a parlamentari e giornalisti, o insistere con alti funzionari , a volte persino ministri, per far loro sapere che l’esperanto è “la” soluzione.

 

Ciò non significa che non bisogna fare qualcosa, ma che si deve distinguere tra pubblico e pubblico e preparare ogni genere di informazione con la massima attenzione. L'azione svolta finora, che però talvolta sembra più attivismo, resta indubbiamente utile (sebbene non sempre con risultati evidenti) se rivolta all'uomo della strada, al pubblico in generale. Ma per parlare ai mezzi di informazione, a chi fa le leggi o ai i membri dei governi occorre sicuramente comportarsi in maniera diversa sia come contenuto che come forma del messaggio. Una goccia in più di entusiasmo, una parola soltanto sottolineata un pò più marcatamente, un qualunque suggerimento che possa avere la parvenza di una pressione, il più piccolo accenno che possa dare l’impressione di ingenuità, tutto ciò basta per rendere non credibile un intero discorso pur se per il resto giusto e ben presentato. Perciò mi dispiace di dire che, secondo me, l’aver inondato i parlamentari (francesi, europei o di altra origine) di informazioni sull’esperanto che citano il mio rapporto è stata un’operazione non sempre ben preparata. E ogni errore commesso rende il lavoro futuro ancora più difficile. Perciò io penso che sia necessario partire da una riflessione molto attenta delle finalità e modalità di comunicazione secondo l’ambiente interessato, con particolare riguardo verso quello della politica, economia e dei mezzi di informazione. Questo non è un lavoro per attivisti, che ci mettono il loro entusiasmo e la loro spontaneità, ma piuttosto un lavoro per strateghi e professionisti della comunicazione, che devono basarsi su progetti precisi ed oculati.

Il problema non è se un’ azione sia in sé buona o cattiva ma al contrario dobbiamo comprendere che ci sono azioni con caratteristiche diverse, per destinatari diversi e con attivisti diversi.

Questo principio secondo me va tenuto assolutamente presente per il futuro dell'esperanto, che deve svolgere un ruolo più importante nel quadro di una generale strategia a favore della diversità.

Ringrazio per la vostra attenzione.

 

François Grin - Università di Ginevra - Relazione presentata in occasione del Congresso Universale dell' UEA in Firenze il 30/07/2006

 

(1) Michele Gazzola, Renato Corsetti, Alex Kadar, Claude Longue Epée, Brian Moon e Claude Nourmont

(2) Thélot (2004)

(3) Grin (2005). Il rapporto si può scaricare da http://cisad.adc.education.fr/hcee

(4) il concetto di “egemonia” si riferisce al caso di una lingua naturale, con parlanti dalla nascita, il che non è il caso o lo è poco per una lingua artificiale come l’esperanto: vedi Pool (1996); Grin (2004a).

(5) ad esempio de Swaan (2002); van Parijs (2004).

(6) Commissione europea (2005).

(7) Piron (1994).

(8) Ad es. il fatto che molti studenti si recano in Gran Bretagna per studiare materie non linguistiche (dalla chimica all’architettura, l’arte medica e le relazioni internazionali) ha notevoli ripercussioni economiche. Bisogna tuttavia tener presente che ciò che si deve calcolare non è l’effetto della presenza di tutti questi studenti. Bisogna prendere in considerazione solo la parte di quegli studenti che senza l’egemonia linguistica avrebbero studiato altrove (in patria o in altro paese) e che hanno scelto di studiare in Gran Bretagna con lo scopo di imparare l’inglese decisione presa per la supremazia dell’inglese.

(9) Hagège (2006:189).

(10) Grin (2004b).

 

BIBLIOGRAFIA

 

Commission européenne, 2005 : A New Strategy for Multilingualism. Communcation from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions. Brŭelles: Commission européenne [COM(2005) 596, 22 novembre 2005].

De Swaan, Abram, 2002 : Words of the World. The global language system. Cambridge : Polity Press.

Grin, François, 2004a : «Coûts et justice linguistique dans l’élargissement de l’Union européenne», Panoramiques, n°69, 4e trimestre 2004, 97-104.

Grin, François, 2004b : «L’anglais comme lingua franca: questions de coût et d’équité. Commentaire sur l’article de Philippe van Parijs», Économie publique 15, 33-41.

Grin, François, 2005: L’enseignement des langues étrangères comme politique publique. Rapport établi à la demande du Haut Conseil de l’Évaluation de l’École, Paris. No 19, 09.2005.

http://www.fcpe34.org/IMG/pdf/rapport_Grin.pdf

Hagège, Claude, 2006: Combat pour le français. Paris: Odile Jacob.

Phillipson, Robert, 2003: English-only Europe? London : Routledge.

Piron, Claude, 1994: Le défi des langues. Du gâchis au bon sens. Paris : L’Harmattan.

Pool, Jonathan, 1996: «Optimal language regimes for the European Union», International Journal of the Sociology of Language 121: 159-179.

Thélot, Claude, 2004 : Pour la réussite de tous les élèves. Rapport de la Commission du débat national sur l’avenir de l’École présidée par Claude Thélot. Paris : La documentation française.

Van Parijs, Philippe, 2004: «Europe’s Linguistic Challenge», Archives Européennes de Sociologie, 45 (1), 113-154.

Trad- Lalli-Bronzetti