Nel corso dell'anno appena terminato è sorta a Roma, per iniziativa di alcuni studiosi e parlamentari, una nuova associazione, "La buona lingua", che, all'inizio dell'estate, ha diffuso un manifesto, per ora non pubblicato, dal titolo In difesa della lingua italiana: e sul problema da esso sollevato sono poi intervenuti nel "Corriere della Sera", durante il mese di giugno, Vincenzo Consolo e Cinzia Fiori (il 6), Giulio Benedetti e Alberto Arbasino (il 7), Franco Ferrarotti (l'l1), Vittorio Sermonti (il 17) e il neo-ministro della P.I. Tullio De Mauro (il 26).
Per la verità questi scritti risultano tutti stanchi e senza idee, proprio come quel manifesto appare non solo nato male (perché suggerito dal non condivisibile timore degl'ideatori di esso - o almeno di alcuni, come Saverio Vertone - che la legge sulle parlate locali, come il sardo o il friulano, possa recar pregiudizio alla lingua italiana); ma per di più risulta arbitrario, pretenzioso e generico, nei concetti come nello stile, e - quel che è più grave - privo di ogni indicazione circa la strategia, giacché non propone alcun mezzo concreto per raggiunger l'obiettivo a parole perseguito. (In passato è stata ragionevolmente suggerita, a tal fine, l'istituzione di un ente analogo all'"Accademia spagnola" della lingua, con adeguati poteri prescrittivi e possibilità di sanzioni - come avviene, o avveniva, alla BBC - a danno degli annunciatori, o autori di testi, che sbaglino espressioni o pronunzie )(1).
Ma l'argomento - è questo il punto essenziale - non può ormai esser più considerato da solo, perché, è bene ripeterlo, di ben altro genere e gravità sono i rischi che oggi corre l'italiano-e non solo l'italiano.
Mi spiego: un mio articolo apparso in "Federalismo e Libertà" (Bologna, 1988, n.3) s'intitola Il luccio e il pescecane. Voglio dire, con quello strano titolo, che mentre si teme - come dagli autori del ricordato manifesto - la pretesa minaccia dei localismi alla lingua italiana (e da altri, con molto più fondamento, quella, inversa, delle grandi lingue nazionali alle parlate minoritarie e "senza Stato"), un pericolo ben maggiore, l'inglese, rischia di distruggere lingue nazionali e idiomi locali, proprio come il latino ha distrutto le lingue autoctone dell'Europa antica, e per le stesse ragioni. Con l'aggravante (e che aggravante!) che oggi il fenomeno - grazie alle comunicazioni di massa, alla globalizzazione, a internet - ha un'incidenza, e soprattutto una rapidità, qualitativamente diverse, sì che il rischio di distruzione in radice delle lingue europee è ben più imminente di quanto si creda.
Esiste ormai una bibliografia molto estesa, ma pochissimo nota, su questo argomento (ne ho indicato i titoli più importanti nell'ultima parte del mio vol. Europa della cultura e Europa delle lingue , Manduria, Lacaita, 2000). Così ad es. Brian Moon, nel suo saggio La comunicazione in Europa, ideali e realtà ("l'esperanto", Roma, ottobre 1999, pp.14-21) prevede che fra cinquant'anni anche all'interno dell'Olanda l'inglese avrà un ruolo più importante dello stesso olandese. E a ciò contribuisce tra l'altro, e in modo decisivo - ricorda l'interlinguista svizzero Tazio Carlevaro (si veda "l'esperanto", n. 3/2000, pp.3-4) - il fatto che in molti Paesi ormai, compresa la Germania, le principali riviste scientifiche si pubblicano in inglese, e in questa lingua vengono incoraggiatigli studenti a scriver le loro tesi di laurea: sì che - prosegue un altro autore - in Svezia, ad esempio, la terminologia scientifica della medicina è, nella lingua di questo Paese, praticamente scomparsa (e, egli aggiunge, domani sarà ben difficile che un altro Bergman possa realizzar i suoi film in svedese).
Il male essendo giunto a tal punto, la cura non può esser sintomatica, ma solo eziologica, nel senso che ho più volte indicato (porro unum, l'Europa politica, la sola che avrà la consapevolezza e la forza d'imporre una soluzione non glottofaga): o, altrimenti, si combatteranno solo battaglie di retroguardia, che potranno, al più, ritardare, ma non prevenire, l'ecocatastrofe linguistica che ci attende, e che solo chi è incapace di pensar diacronicamente cerca di negare, nascondendo la testa come lo struzzo. Orbene, della consapevolezza di tutto ciò non vi è traccia nel manifesto ricordato sopra, né negli scritti che lo hanno accompagnato, né in quello, più recente, di Corrado Stajano, L'italiano dimenticato, anch'esso nel "Corriere" del 5 dicembre, né in quello di Ida Dominijanni, Europa, la lingua possibile, nel "Manifesto" del 13 dicembre 2000.
Altiero Spinelli diceva che la linea di divisione fra forze progressiste e forze conservatrici passa fra quelle che concepiscono ancora come campo della lotta quello antico, nazionale, e quelle che invece hanno compreso il carattere pregiudiziale di una dimensione politica continentale - la Federazione Europea - per risolvere i più gravi problemi dei nostri Paesi. Ma non mancava di rilevare quanto sia difficile accettar davvero, e soprattutto mettere in pratica, quella "interversion des préalables": non limitarsi a renderle un omaggio verbale, o, come dicono gl'inglesi, un lip service, ma ad essa costantemente ispirarsi nello studiare e proporre soluzioni per tutti i problemi concreti, non solo della politica estera e difensiva, ma anche della vita economica, sociale, della cultura.
Il manifesto lanciato da "La buona lingua", e gli altri scritti da esso ispirati, sono un esempio - purtroppo tutt'altro che raro, anzi, si può dire, senza eccezioni - di come la massima di Spinelli, centrale nel pensiero dei federalisti europei, sia rimasta nel fatto inascoltata, e non sia presa sul serio se non da questi ultimi, rari nantes in gurgite vasto. Con le conseguenze, nel caso concreto, che abbiamo indicate.
(1) Naturalmente si può andare oltre, e suggerire, come altri ha fatto in passato, una riforma ortografica che risolva, come appunto in spagnolo, il problema degli accenti su parole non piane, così come quello della duplice pronunzia, secondo i casi, di e, o, s, z (p. es. rosa, fiore, e rosa, participio passato passivo femminile di rodere, o razza, di animali e razza, pesce, e varie altre simili anfibologie). "Non è mai tardi per andar più oltre", diceva D'Annunzio.